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Quando a Castelvetrano il Carnevale era "Carnevale". Usi e costumi di un'epoca che fu

del 2014-07-26

Immagine articolo: Quando a Castelvetrano il Carnevale era "Carnevale". Usi e costumi di un'epoca che fu

Il Carnevale che si svolgeva a Castelvetrano era rinomato in tutti i paesi della provincia di Trapani per il gran numero di persone che richiamava e che vi partecipavano. Le giornate in cui si svolgeva erano otto. Le orchestre che allietavano le serate con i brani più movimentati d’allora, la musica liscio e quella sudamericana (non quella attuale della “Macarena” e dintorni, ma quella del tipo “Tico Tico”), s’intervallavano in turni di due ore ciascuna riuscendo a proporre brani differenti l’uno dall’altro, quindi senza ripetizioni.

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  • La gente aspettava il Carnevale con molta ansia. All’epoca era usanza indossare il “domino”, una veste nera con cappuccio, mantella di tessuto raso e mascherina, “pagliaccetto”, che copriva tutta la persona non facendo capire se si trattasse di un uomo o di una donna. L’unico particolare che avrebbe potuto permetterne il riconoscimento del sesso, potevano essere le scarpe che indossavano o il petto pronunciato per chi era stata particolarmente dotata da madre natura.

    Alcuni maschietti, però, mettevano al piede delle scarpe da donna o delle pezze all’interno di un reggiseno preso in prestito dalle prosperose madri o sorelle. Con questi espedienti confondevano gli sfortunati avventori che, pensando di ballare con un’avvenente dama ballavano, invece, con un birichino cavaliere.

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  • D’altronde “A Carnevale ogni scherzo vale”. Le dame, a loro volta, portando la maschera sul viso, non erano facilmente riconoscibili; potevano, quindi, liberamente sfogare tutte le loro inibizioni ambientali e temporali di quei tempi altamente proibitivi e salottieri della maldicenza.

    Uno dei “Carnevali” che s’organizzava a Castelvetrano, il più sentito e sicuramente il più bello, era quello presso il Cine Teatro Palme d’estrazione “nazional-popolare” (mai miglior binomio fu coniugato per rappresentare un fenomeno di massa così diffuso). Era anche il più frequentato, poiché il comitato organizzatore era la “Società Operaia” che vantava allora ben più di millecinquecento iscritti.

    Le altre serate di Carnevale, invece, erano organizzate al Circolo “Gioventù” riservato a un’utenza che potremmo definire d’elite. Quello organizzato, infine, al Circolo “Pirandello” era il più goliardico, poiché i fondatori erano tutti studenti universitari. Per quanto riguarda il Carnevale del Cine Teatro Palme, le serate che vi s’organizzavano erano in tutto sei: dal giovedì grasso al martedì delle ceneri. Le orchestre impegnate erano due: una suonava dalle ore 16,30 fino alle ore 20,30 per le maschere ch’erano vestite con il classico “domino”, l’altra dalle ore 21,30 fino a oltre le ore 2,30 della notte per le persone non in maschera.

    Il comitato, per recuperare un po’ di soldi che dovevano servire per mandare avanti le numerose attività del circolo, oltre alla vendita del biglietto d’ingresso, vendeva le “coccarde”. Queste erano di tre colori: bianca, rossa o verde, più una con tutti e tre i colori. Quella di un solo colore costava 500 lire, mentre quella di tre colori 1.500 lire. Questo serviva sia a impinguare le casse deficitarie del Circolo sia a fare in modo che si ballasse in maniera scaglionata in quanto, essendo molte le persone all’interno del cinema, non c’era spazio per fare ballare tutti in contemporaneità.

    Così il cantante del complesso che animava la serata, prima d’iniziare ogni nuovo brano, annunciava il colore della “coccarda” che poteva ballare. Chiaramente chi aveva investito 1.500 lire per comprare la “coccarda” tricolore ballava tutte le volte; mentre chi aveva comprato soltanto quella d’un colore solo doveva aspettare che il cantante annunciasse il suo di colore prima di potere invitare qualcuna a ballare. La “coccarda” era attaccata al taschino della giacca in bella vista.

    Il comitato, sempre per cercare d’incassare il più possibile, gestiva anche il buffet ch’era sistemato all’ingresso del Teatro, (oggi sede di una delle boutique di Pinuccia). C’era un bancone lungo circa quindici metri fornito di panini, tavola calda, dolci, beveraggio vario e quant’altro di necessario per un’utenza che voleva soltanto divertirsi. Il cantante del complesso di turno, esortato spesso dal comitato, invitava i cavalieri ad accompagnare le proprie dame al buffet. Il cavaliere, dopo avere ballato con la dama di turno, in segno di gratitudine la invitava al bar per offrirle qualcosa, anche se spesso non di buona voglia poiché era un periodo in cui non c’era molta disponibilità di denaro.

    Alcune dame, ben coscienti della situazione finanziaria d’allora, educatamente rispondevano “No! Grazie”. Le più sfacciate, invece, accettavano di buon grado. Succedeva, oltretutto, che qualche dama più esigente, profittando dell’occasione, consumava più del dovuto mettendo a volte in seria difficoltà il malcapitato cavaliere. Questi, poi, per vendicarsi, avvicinava gli altri cavalieri e li avvertiva che quella tal dama non solo aveva accettato il suo invito al buffet, ma ne aveva approfittato consumando più di quanto fosse stato lecito. In tal modo gli altri cavalieri, avvertiti, non andavano più a invitare l’esigente e profittatrice dama, la quale rimaneva in disparte per tutta la serata.

    Da rilevare, inoltre, che il Carnevale era l’occasione per far conoscere le ragazze da maritare. Esse non andavano da sole, ma erano accompagnate dai genitori e dai fratelli, costretti a vestirsi a festa, loro, che per lo più costituivano parte della società contadina non abituata ad alcun tipo di mondanità. Pur di offrire, però, la possibilità alla figlia di conoscere qualcuno che potesse poi, magari, diventare il futuro marito, facevano “buon viso a cattivo gioco”.

    In quel periodo a Castelvetrano, fucina di quasi tutte le serate più importanti, dal Carnevale alle feste di piazza e ai veglioni d’ogni genere, venivano molti giovani dagli altri paesi vicini, sempre con l’intenzione di conoscere qualcuno per fidanzarsi e, magari, diventare il compagno o la compagna della vita. Infatti, molti dei nostri genitori hanno sposato ragazze, o viceversa, di Partanna, Campobello di Mazara e Santa Ninfa.

    Durante le serate di Carnevale, che in pratica iniziava un mese prima del giovedì grasso e finiva un mese dopo le ceneri, le ragazze sedevano nella prima fila e dietro si sistemavano i parenti, genitori o fratelli. Quando un cavaliere era interessato a ballare con una ragazza, magari dopo che questa lo aveva, con molto fair-play, ammiccato, egli le s’avvicinava e le rivolgeva un invito con un inchino formale invitandola a ballare: “Balla?”. La ragazza prima d’accettare, e se lo desiderava altrimenti dava “coffa”, “forfait” col solito “No! Grazie”, volgeva lo sguardo al padre, o chi per lui, per l’eventuale assenso al ballo. Bastava un piccolo cenno di consenso da parte di questi, di solito manifestato con un leggero movimento delle palpebre, e la dama poteva accettare l’invito.

    Succedeva, pure, che se una dama rifiutava il ballo con un cavaliere per, poi, accettarlo con un altro, poteva dare motivo di qualche leggera discussione. In pratica il cavaliere che aveva ricevuto il diniego, voleva “cuntu e ragiuni” soddisfazione del perché del rifiuto che gli aveva procurato, fra l’altro, una certa mortificazione. Comunque il tutto si risolveva sempre con un formale chiarimento e mai con una lite.

    Se, poi, un cavaliere continuava a invitare sempre la stessa dama, il padre di lei allertava il figlio maschio il quale aveva il compito d’intervenire presso l’audace cavaliere con la classica frase: “S’avi ‘ntenzioni seri, si facissi avanti”, “se ha intenzioni serie, si faccia avanti”, creando un certo imbarazzo nel casuale avventore.

    A quel punto, se c’era davvero un’intenzione seria da parte del giovane cavaliere, questi chiedeva un incontro a casa della probabile prossima fidanzata. Incontro al quale si presentava accompagnato da un parente stretto o dal compare. Se, invece, non era interessato, non ritornava più a invitare la ragazza. Per quanto riguarda le vedove potevano ballare solo con i propri parenti.

    Nacque in quel periodo il famoso “ballo della mattonella” che consisteva nel ballare più stretti, poiché in quel periodo s’evitava il contatto per non incorrere in spiacevoli “incidenti di percorso”, liti o quant’altro. I compositori d’allora cominciarono a creare brani molto lenti, apposta per costringere le coppie ad abbracciarsi teneramente. Per lo più erano degli slow, uno per tutti, “Arrivederci”, di Umberto Bindi, artatamente creati per favorire il contatto.

    A questo s’aggiungeva un espediente inventato dai furbi cavalieri nei confronti delle non sempre sprovvedute dame. In pratica un cavaliere complice dava un pizzicotto sul sedere dell’altro complice la cui legittima reazione era un movimento d’anca di quest’ultimo verso la propria dama (quasi a simulare un virtuale atto sessuale). A quel punto la dama poteva far finta di niente o reagire con un “Ma che sta facendo? Maleducato!” e magari ci scappava anche un sonoro scappellotto. Toccava, poi, alla sensibilità e intelligenza del cavaliere capire se la dama si fosse importunata veramente e scusarsi con lei, oppure era tutta una finta per far intendere ch’era una donna irreprensibile.

    A parte il Circolo Gioventù, il Circolo Pirandello e il Cine Teatro Palme, il Carnevale era organizzato anche in magazzini privati addobbati opportunamente o locali adibiti allo scopo, poiché l’utenza era tale che soltanto i Circoli non potevano soddisfare la richiesta. In questo tipo di locali improvvisati le serate, non potendo permettersi “li sunatura” i musicisti, erano allietate mediante il “Grammofono”,  il “Fonobar” o il “Giradischi” utilizzando dischi 78 giri di musica da ballo per fare divertire chi vi partecipava: tanghi, valzer, mazurke, polke, tarantelle e contraddanze “cumannate” comandate. In pratica, mentre gli altri ballavano, un maestro di ballo o “bastuneri”, perché utilizzava il bastone per comandare la “cuntraranza”, spiegava qual’era il prossimo giro di ballo con geniali e contorte invenzioni atte a fare in modo che dame e cavalieri si potessero avvinghiare tra di loro senza che alcuno avesse niente da contestare.

    Oltretutto la contraddanza comandata permetteva che tutti i cavalieri potessero a turno ballare con tutte le dame che partecipavano al gioco, quindi anche con quelle che, magari a un invito personale, avevano risposto di no. I versi che recitava “lu bastuneri” erano detti “cuminciatina” e servivano a invitare “li danzatura” a prepararsi “pi la cuntraranza”. Così recitavano:

    “A tutti l’amici mi raccumannu ‘nta sta cuntraranza di ‘un sbagliari

    Siciliani vi la cumannu chi tutti quanti m’hannu a capiri

    Attenzioni prufissura maestri valenti (li sunatura), dame e cavalieri cu tanta eleganza

    Ora ci abballamu una bellissima cuntraranza

    Vi la cumannu cu tantu amuri. Musica prufissuri.

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