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Il carnevale che fu. Quando "Li nanni " erano "apparati" da “Don Pippinu Vaiana l’apparaturi”

di: Vito Marino - del 2015-01-31

Immagine articolo: Il carnevale che fu. Quando "Li nanni " erano "apparati" da “Don Pippinu Vaiana l’apparaturi”

Il Carnevale è una festa di origine pagana; i greci iniziarono con le feste Dionisiache e Baccanali  e, successivamente continuarono i romani con i saturnali e baccanali.    

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  • Si trattava di un’occasione data alla povera gente, per sentirsi, almeno per un po’, liberi e meno sfruttati, curioso bisogno di abolire la propria personalità per assumerne una fittizia, per commettere, sotto una maschera grottesca, le più stravaganti bizzarrie, provando a dire, anche in forma scherzosa, e non solo, tutto ciò che non è consentito dire seriamente, per ridere impunemente di tutto e di tutti.

    In effetti, nel corso dei saturnali romani veniva sovvertito l'ordine sociale per cui gli schiavi diventavano  uomini liberi e potevano comportarsi come tali. Giusto per un breve periodo però, perché poi tutto tornava alla normalità ed il povero schiavo tornava a subire ancora le angherie e le prepotenze dei loro aguzzini.

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  • Probabilmente questa consuetudine,  nell’ intenzione dei padroni  altro non era che una provvidenziale valvola di sfogo che poteva  distogliere  per qualche tempo gli sfruttati dai loro "foschi" pensieri di rivolta e renderli più remissivi.  

    Spesso il baccanale coinvolgeva più popolazioni di un territorio che si riunivano per diversi giorni in un luogo-simbolo, dove venivano praticati anche sacrifici animali; sicuramente le pratiche sessuali che vi si svolgevano erano anch'esse finalizzate alla propiziazione ma anche ai festeggiamenti per i pastori che ritornavano dalla transumanza dopo un'intera stagione.

    Nella Roma del II secolo durante tali riti gli adepti praticavano la violenza sessuale reciproca (sodomia compresa), specialmente sui neofiti, e ciò era in contrasto con le leggi romane che impedivano tali atti tra cittadini, pur permettendole nei confronti degli schiavi.

    Nel periodo che va dal 250 d.C. al 500 d.C questi riti, come tutti i bei riti pagani, furono assorbiti e completamente stravolti dal Cristianesimo che istituì anche la Quaresima, ma ne conservò altri che sono sopravvissuti fino ad oggi, come il carnevale.  

    Cosi i baccanali e i saturnali diventarono “carnem levare”, cioè la festa che ci viene a togliere la carne infliggendoci quaranta giorni di digiuno, penitenza ed astinenza dalla carne. dopo quei tre brevissimi ed attesi giorni di divertimento e di svago, con  le Ceneri aveva inizio il periodo  quaresimale che veniva a ricordarci che si tornava  alla vita di tutti i giorni e che tutti noi siamo destinati a morire e a  tornare polvere (Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris). Nel nostro dialetto la parola carnevale conserva interamente la sua origine latina infatti “carnem levare” diventò “carnelevare” e, successivamente, carnelevaru.  

    Per Castelvetrano storicamente si tratta di una ricorrenza che risale al 1600 con l’introduzione del gioco del toro e di tre giorni di festa, che in Sicilia si chiamavano “Li sdirri”.

    All’insegna del chiasso e del grande spasso, un bue veniva legato per le corna con una lunga e robusta fune, trattenuta al capo da un gruppo di uomini.  Il toro, aizzato dai giocatori con drappi rossi e dalle urla sfrenate del pubblico, al sicuro dietro uno steccato, rincorreva minaccioso il giocatore.  

    Costui quando sentiva di essere raggiunto e di non poter schivare il corpo dell’animale, si salvava scendendo lesto in un fosso scavato precedentemente nel mezzo della piazza.  Il più bravo dei concorrenti non era solo colui che con movimenti agili e lesti scansava i corpi del toro senza scendere nel rifugio, ma chi invece riusciva a cavalcarlo.

    Da tempo questa specie di corrida è stata abbandonata e a memoria d’uomo è subentrato un carnevale fatto di maschere, balli e scherzi.  

    Durante la II Guerra Mondiale, la manifestazione era stata sospesa per evidenti motivi; fu il sindaco Simanella, in carica dal 1947 al 1952, durante il suo mandato, a far ritornare questo divertimento popolare.  

    Gli anni ’50 - 60 forse furono i più ruggenti della storia di questa festa popolare, addirittura veniva gente dai paesi vicini, anche da Palermo, per divertirsi.

    Gli echi della guerra e gli effetti devastanti sugli edifici e sull’economia della città erano ancora visibili ma la gente, finalmente libera dalla dittatura, aspettava con ansia il Carnevale per scrollarsi di dosso gli orrori e i pericoli vissuti, le ristrette condizioni economiche, per dimenticarsi di essere dei miseri mortali e per godersi quegli attimi di spensieratezza e d’allegria, che la festa forniva in maniera collettiva, genuina e gratuita.  

    Si trattava, infatti, di una povera manifestazione dal punto di vista scenografico ma l’entusiasmo e l’allegria coinvolgeva lo stesso tutta la popolazione. Pochi potevano comprarsi il domino; la maggior parte portava delle maschere improvvisate, povere perché fatte con vecchi vestiti riciclati, ma spontanee, che suscitavano allegria e risata; sembrava proprio che tutti dicessero: “chi vuol esser lieto sia di doman non c’è certezza”.  

    Le maschere, raffiguravano i personaggi dei vari ceti sociali, in maniera burlesca per mettere in evidenza i difetti della società. Così c’era “lu baruni, lu dutturi, lu camperi, lu galantomu, l’avvocatu, lu iurici, lu massariotu, i vari artigiani, la fimmina prena” .

    Quando un mascherato incontrava un conoscente, lo spingeva, gli ballava attorno e gli chiedeva: “Cu sugnu?”. Generalmente era una donna che, protetta dall’anonimato si divertiva a stuzzicare un uomo (i ruoli invertiti dei Saturnali).    

    I petardi erano molto usati e nelle strade principali si svolgevano delle vere battaglie, fra squadre rivali. In una civiltà ancora maschilista, i petardi erano lanciati in direzione delle donne, procurando spesso bruciature alle calze e alle gambe; la gioia di chi lanciava i botti era quello di sentire le donne gridare di spavento.  

    I ragazzi si consolavano con “l’assicuta fimmini” e “li sparapauli”; i secondi erano delle cartine rosse con tanti piccoli rigonfiamenti, contenenti polvere da sparo; esse si facevano esplodere picchiandovi sopra con un sasso o un martello.  

    “Li piticchi” (coriandoli) e le stelle filanti c’erano anche allora; molto in voga era “lu fetu” (la puzzolina), a volte buttata in classe dagli alunni, per far sospendere la lezione.  Gli scherzi praticati dovevano essere  accettati da tutti senza offesa.  

    In Sicilia, nel linguaggio parlato, per rafforzare il discorso, era molto in uso il proverbio. Anche per il Carnevale esistevano dei proverbi: uno diceva  “Carnevali ogni scherzu vali, cu s’affenni è un maiali”; un altro diceva: “cu è fissa Carnevali o cu ci va appressu?”, un altro diceva: “Pi Sant’Antoniu (17 gennaio) mascari e soni; pi San Bastianu (20 gennaio) mascari ‘n chianu”.  “Doppu li tri re olè olè”, diceva un altro proverbio; infatti, con “la festa di li tri re”, una volta prettamente religiosa, oggi chiamata “della befana”, cioè del consumismo e dei regali,  il sei gennaio chiudeva tutta la festività e l’atmosfera natalizia.  

    Il giorno dopo già alcune maschere giravano per le strade con le loro voci artefatte riscaldando e preparando l’atmosfera per la grande festa. In quei giorni si ballava soltanto in casa di amici “a parti di casa” (presso i privati), “dunni si teni sonu” (dove si suona). I cinque giovedì antecedenti al Carnevale erano molto attesi da quegli innamorati che, con i consensi dei rispettivi genitori,  avevano le buone intenzioni di fidanzarsi.

    Il primo giovedì veniva chiamato “dei vicini”, in quel giorno si organizzavano dei balli in casa della ragazza e fra gli invitati c’era anche il ragazzo pretendente e rispettivi familiari.

    Nel secondo, detto  “degli amici”, si ballava di nuovo; ma, se tutto procedeva bene fra le due famiglie, avveniva anche la “spiegazione” cioè l’intesa per un fidanzamento ufficiale.

     Il terzo, detto “dei parenti”, in occasione del ballo si poteva festeggiare anche l’entrata ufficiale al fidanzamento (si era già parenti).

    Nel quarto, detto “delle comari”, i consuoceri diventavano automaticamente anche compari e comari; ormai i due fidanzati potevano stringersi fra le braccia durante il ballo.

    Il quinto era il “giovedì grasso”, il più conosciuto e atteso, perché dava inizio alla baldoria di piazza. In questo giorno, appunto perché grasso, si consentiva anche alle donne di parlare in maniera poco pulita.  

    Caso strano, ma in una società maschilista le donne, anche se sposate, per Carnevale potevano permettersi certe libertà, come fare scherzi agli uomini, ballare con un altro uomo o parlare in maniera volgare (appunto grasso); in presenza delle donne si poteva giocare agli indovinelli e scioglilingua “vastasi”.  

    In quel periodo, la festa era molto attesa da tutti, per fare anche grandi mangiate. Le carni di maiale e di tacchino, cucinate al ragù con la “sarsa sicca” e la “pasta di casa” fatta a “tagghiarini” o “maccarruna busiati” erano i piatti più  consumati.  In merito un proverbio diceva: “Pi cannalivaru si sì manciuni, mancia sosizza e maccarruna”. Pietanze invece vietate il giorno di Capodanno (secondo l’usanza le cose rotonde, compresi cannoli e involtini), perché portavano male.  

    Per portare allegria, “lu vinu di utti” (il vino buono di botte) si consumava a fiumi. Dal Giovedì grasso fino al Martedì grasso una gran folla si riversava per le strade vestita in maschera e si divertiva a più non posso con scherzi e balli.

    Si ballava presso tutti i circoli ricreativi e culturali,  ai cinema: Capitol, Palme e  Marconi, alla sala bigliardi, ma si ballava anche “a lu chianu” (Piazza Garibaldi, piazza per antonomasia), con l’orchestrina che suonava.  

    Parallelamente agli amori umili e sinceri dei giovani popolani, che aspettavano il Carnevale per realizzare i propri sogni, c’erano gli amori clandestini fra uomini maturi sposati, con altrettante donne compiacenti che, approfittando dell’anonimato garantito  dalla maschera, realizzavano i loro sogni illegittimi.  

    Li “sdirri”, forse dal francese dernier, erano  gli  ultimi tre giorni di Carnevale “sdirriduminica, sdirrilunniri, sdirrimartiri”; essi  rappresentavano il culmine della festa. Un proverbio siciliano dice in merito: “tuttu l’annu cu cu voi e li sdirri cu li toi”.

    Anche allora c’era la lettura del “tistamentu di lu nannu”; e la “bruciatina di lu nannu e la nanna”, preparati ogni anno, fino al 1967 da “Don Pippinu Vaiana l’apparaturi”. I due fantocci si bruciavano in Piazza Garibaldi. Caratteristici erano i piagnistei “di li niputi di lu nannu”. Si trattava di finti lamenti che si rifacevano al “repitu”, dei lamenti funebri a cantilena misti a pianto da parte delle “prefiche” o “reputatrici”, donne professioniste specializzate in lamenti funebri, che inneggiavano alla gloria o a fatti successi al defunto e rammarico per la sua scomparsa.

     “La bruciatina di lu nannu e la nanna” simboleggiavano l’eliminazione del male durante il corso dell’anno e l’inizio di una nuova vita più sana.  

    Sicuramente questo è il modo migliore per festeggiare il Carnevale; la festa non deve racchiudersi in una magnifica manifestazione con sfilate di carri costosissimi, dove partecipa  la stampa e la televisione, avente come scopo esclusivamente il lucro e la pubblicità  (vedi Carnevale di Viareggio).

    Per Carnevale si deve tornare bambini, per dimenticare di essere dei miseri mortali e riacquistare quegli attimi di spensieratezza, quella risata facile, spontanea e genuina ormai smarrita nel corso di una vita inutile, caotica e stressante. La scienza medica dice che questa è una buona terapia per tutti i mali psicosomatici  (oggi, in qualche ospedale d’avanguardia, per i bambini ammalati c’è il clown per fini terapeutici).

    Purtroppo, forse per colpa della globalizzazione o del benessere o della emancipazione della donna, il carnevale a Castelvetrano dopo gli anni ’60 a poco a poco si ridusse  e si rinchiuse nei circoli con balli in vestito di convenienza Il vestito più bello viene riservato per l’ultima serata. Durante il veglione si stava seduti compostamente lungo le pareti del salone del circolo.

    La donna restava in attesa del cavaliere che veniva ad invitarla con un inchino. I balli erano quelli classici del tempo: polche, mazurche, samba, valzer, tango. Tutto si svolgeva col massimo rispetto del cavaliere verso la dama e si cercava di non creare confusione durante il ballo, per evitare eventuali toccamenti nascosti agli occhi sempre vigili dei genitori.    

    Negli anni ’70, con il subentrare delle discoteche anche questa allegra manifestazione si è ridotta drasticamente. Si spera sempre nel risveglio di questa festa popolare e al ritorno allo splendore degli anni che furono, almeno per farci dimenticare la disoccupazione, i malfatti della classe politica e le eccessive tasse applicate alla classe più povera della popolazione.  

    Tuttavia: Evviva sempre il Carnevale!.                                                                                          

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