La Zabbara e la Liama. Quando a Tre Fontane i villeggianti costruivano le “logge”
del 2015-02-12
La "Zabbara" (agave), è una pianta grassa con foglie lunghe e carnose provviste di spine molto pungenti ai lati, più un aculeo alla sommità; resiste benissimo alle forti siccità e si adatta anche ai terreni rocciosi. La pianta, quando arriva alla maturità, emette un'infiorescenza a pannocchia su un'asta lunga, che conferisce al paesaggio siciliano l'aspetto caratteristico mediterraneo, quindi muore.
Questa pianta cresce allo stato selvatico nelle zone incolte; nelle campagne si usa come siepe per delimitare i confini delle proprietà. Una volta tali confini potevano essere delimitati da muri a secco costruiti con pietre non squadrate, ma sistemate così bene da bravi artigiani, da resistere al tempo ed alle intemperie.
Una volta, anche i feudi incolti rocciosi, dove si praticava la pastorizia o la raccolta delle palme nane, erano recintati da agave o muri a secco. Allora, volendo bonificare questi terreni e renderli idonei all’agricoltura, si potevano coltivare mandorli, fichidindia o carrubi, che con le loro radici riuscivano a frantumare e “digerire” chimicamente le rocce più dure.
La “zabbara” oggi è diventata una pianta inutile, mentre durante la civiltà contadina era molto ricercata, anzi, direi, che era una pianta indispensabile. Dalle foglie, infatti, opportunamente lavorate, si ricavavano filamenti molto resistenti (sisal) "lu zabbarinu", con cui si otteneva spago, corde di varie misure e la “curdina pi stenniri” per la massaia.
Per ottenere la fibra le foglie si lasciavano macerare in acqua, quindi si battevano con un mazzuolo di legno per liberare la sostanza gelatinosa, quindi si passavano in spazzole fatte di chiodi. I filamenti più lunghi si usavano per fare le corde, mentre i filamenti più corti, impastati col gesso, erano utilizzati dal gessaio.
Con lo spago si riempivano "li funna di zabbarinu" (il ripiano per sedersi) delle sedie. Inoltre, con le cordicelle opportunamente intrecciate a scacchiera, si ottenevano "li rituna" per trasportare la paglia di grano. Dalle foglie, tagliate a strisce per il lungo e fatte essiccare al sole, si ricavava "la liama", una corda primitiva, rudimentale, ma resistentissima, che serviva per legare "li mazza di ligna", cioè le fascine di legna da ardere e "li regni" (i covoni del grano); per renderla più morbida, si metteva a bagno in acqua per qualche ora prima di servirsene.
L'asta dell'infiorescenza, una volta essiccata, era utilizzata come trave per sostenere “la pinnata” (la tettoia leggera), fatta di graticci di canne, per l'ombra. Tre aste legate sulla parte superiore, a forma di capanna servivano da “tripporu” (sostegno) per "lu crivu d'occhiu", il setaccio per setacciare il grano sul “postu d’aria” (l'aia). Sulla spiaggia di Tre Fontane, con dette aste, i villeggianti si costruivano le “logge” per la villeggiature estiva. L'infiorescenza si dava come mangime ai maiali.
Oggi, questa pianta, che appartiene alla famiglia degli aloe, è in via d’estinzione, tuttavia rimane ancora come pianta ornamentale, specialmente la varietà bicolore verde e gialla. Ma la “liama” che significa legame, legaccio si può ottenere anche con la “ddisa” (ampelodesmo), una pianta graminacea dallo stelo filiforme resistentissimo, che cresce in terreni aridi incolti. Era usata dai contadini per “mmasari” (legare - invasare) la vigna. La legatura avveniva con la torsione delle estremità.