"Vanni lu maresciallu" e altre "'nciurie". La percezione della disabilità mentale nella Castelvetrano di un tempo
di: Vito Marino - del 2018-03-23
Spesso la mia mente si estranea dalla realtà quotidiana e va a ritroso nel tempo alla ricerca di fatti e persone nascosti nel mare della memoria.
Vanni lu marasciallu. Di questo personaggio molto noto ai Castelvetranesi fino ad un trentennio fa, mi resta un lontano ricordo. Tutti lo conoscevano, ma nessuno sapeva il suo cognome, dopo, è scomparso nel nulla. Costui era un ritardato mentale, sempre in giro per il paese. Sicuramente consapevole del suo stato di inferiorità, cercava di sopraelevarsi rispetto agli altri dandosi delle arie e dei comportamenti da "maresciallo". Tante volte, provvisto di un vecchio berretto di divisa (forse di ferroviere), egli si metteva in un crocevia e, in qualità di maresciallo, dirigeva il traffico, con le conseguenze disastrose immaginabili.
Questo era lo spunto cercato da ragazzi e anche da qualche adulto sfaccendato per prenderlo in giro e ridere per le sue reazioni.
Una volta mentre ero in servizio alla biglietteria della stazione, "lu marasciallu", dopo aver richiesto un "pizzinu pi Selinunti" (biglietto per Selinunte), guardandomi negli occhi in segno di sfida, con il suo vocione da baritono ha aggiunto: "pi masculu!" e lo ha ripetuto anche per una seconda volta. Allora l'ho rassicurato che era per "masculu" e lui mi ha fatto capire che l'altra volta il biglietto acquistato era stato per "fimmina" e sul treno il conduttore lo voleva fare scendere. Così ho capito che sul treno la volta precedente qualcuno, per divertirsi alle sue spalle gli avrà detto che il suo biglietto era per donna e quindi non era valido.
Premesso che "la cucca" in dialetto siciliano è la civetta e che "fari la cucca" significa burlare, in un passato non troppo lontano (fino agli anni '60 circa) "fari la cucca" a chi non era nelle condizioni di sapersi difendere per incapacità fisica o psichica, direi che era quasi una moda, un modo per divertirsi, un diversivo alla monotonia della vita grama giornaliera.
Inoltre l'handicap era appellato, anche dalla scienza ufficiale, con vocaboli che sapevano di dispregiativo, come: orvu, zzoppu, sciancatu, foddi, immurutu, babbu, cretinu, scimunitu. Non contenta di ciò, la società inclemente appioppava loro anche una "nciuria" (soprannome) per farli arrabbiare. Se nel salone di qualche barbiere capitava un ragazzo "babbu" (down) o anche una persona con una intelligenza limitata, ne approfittavano i clienti per farli parlare e ridere dei loro discorsi. Per le strade era normale incontrare un disabile con tanti ragazzi dietro, che si divertivano ad ingiuriarlo; purtroppo anche qualche adulto, invece di intervenire, si divertiva anche lui guardando quella scena.
La scuola era interdetta ai ragazzi con disabilità, ma gli stessi genitori, vergognosi di avere un figlio in quelle condizioni, non li avrebbero mandati, anzi se li tenevano in casa ed evitavano di farli uscire per strada. I ragazzi meno svegli o provenienti da famiglie disagiate, che non potevano seguirli negli studi, erano trascurati dagli insegnanti, fatti sedere nell'ultimo banco ("lu vancu di li scecchi") e derisi dai compagni. Anche colo affetti da problemi di salute mentale non erano immuni da questo trattamento, ma erano considerati dal popolino come delle persone che avevano in corpo "li spirdi" (gli spiriti) e venivano chiamati "li spirdati", e come tali venivano curati dai "spiritara" (maghi e fattucchiere) affinché togliessero loro gli spiriti.
Poiché detti rimedi non davano esito positivo, ad un aggravarsi della malattia questi poveretti venivano rinchiusi nei manicomi per il resto della loro vita. Finivano qui anche le persone con ritardi cognitivi, che certe famiglie non potevano mantenere o non volevano tenere in casa, perché si vergognavano.
Dai soprannomi purtroppo non si salvava neppure una persona con un'intelligenza superiore alla norma; bastava che questa fosse irascibile o con qualche imperfezione, e subito la società gliene appioppavano uno fatto su misura.
Nei piccoli paesi capitava spesso che diverse persone con lo stesso nome e cognome ricevessero gratuitamente un soprannome ciascuno, per poterle meglio individuare. Lo stesso capitava a chi aveva un nome poco comune e difficile da ricordare. Tanta era l'abitudine di chiamare queste persone con la “’nciuria” che lo stesso vicino di casa non sapeva il loro cognome.
Ho un elenco di 220 soprannomi appioppati a persone vissute a Castelvetrano; ne cito soltanto alcuni: “Sipiuni, la barunedda, la carracchià, lu purpu cottu è?, Marì Marì ch'apparecchiu vasciu!, don Totò bacaredda, Antriuzza testa sicca, fraffracinu, pagghia di fava, la cucchiara, mezzu culu, orrait, piricuddu, cimiteru, Totuccia cocciu d'oru, lu catarrusu, lacu pirtusu, la viscuttara, vicarìa, lu canonicu, re di coppi” .
Si tratta d'altri tempi, della civiltà contadina, povera ma ricca di valore umano e di nostalgia per chi vi ha vissuto, che, purtroppo, su questo campo lasciava molto a desiderare.
Tratto da Agave del 2011. Articolo a cura di Vito Marino