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C’era una volta a CVetrano “lu zzu’ Nanà Callea” il “mago” del ferro che in tanti ricordano

del 2018-04-28

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“Lu zzu’ Nanà Callea” è una figura molto comune, apparentemente insignificante del passato, ma che riassume il mondo scomparso della cultura contadina siciliana; una cultura durata millenni, che i “piemontesi” ci hanno deturpato con la conquista della Sicilia nel 1860, e che, successivamente con la globalizzazione, intorno al 1950 è scomparsa.  

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  • Intanto c’è da dire che in quegli anni il nome di persona era preceduto da un segno di distinzione, che stava ad indicare il gradino della scala sociale di appartenenza. Nel caso in esame “zzu” è il diminutivo di zio, quindi un segno di rispetto portato verso una persona di una certa età, appartenente economicamente agli ultimi scalini della scala sociale.

    Così, il borghese riceveva il “don” (da dominus), la moglie veniva chiamata “donna”; mentre, per gli appartenenti all’ultimo gradino delle scala sociale si usava  “gnuri” seguito dal nome, e “gnura” per la moglie. Ma al peggio non c’è mai fine, i lavoratori giornalieri che non avevano alcuna specializzazione nel lavoro venivano chiamati col loro nome di battesimo e ricevevano il “tu”, senza nessun titolo; alle stesse persone quando superavano una certa età si dava il titolo di “zu” e “za”, per come detto.    

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  • Per maggiore precisione, visto che siamo in argomento, c’è da dire che il “lei”, come segno di distinzione è entrato in uso dopo il 1860, importato dai piemontesi; prima si usava il “vossia”. Il nobile riceveva il “voscenza”, il borghese il “voi”. Si tratta di una tradizione, che per certi versi continua fra le persone di una certa età.  

    Diciamo che conoscevo Lu zzu Nanà (Leonerdo) da sempre, perché sto parlando di circa 70 anni fa; allora era giovanotto e lavorava da “giuvini”, per come meglio era denominato in quegli anni ’50- ’60 del secolo scorso l’aiutante di bottega, alle dipendenze del “chiavitteri” (fabbro ferraio), che esisteva all’angolo della Piazza Regina Margherita e Via Rattazzi. Allora quest’ultima via non era stata aperta.  

    Sto parlando di un mondo scomparso, quando tutti i lavori si effettuavano con attrezzi manuali e con la forza delle braccia e  gli artigiani a Castelvetrano si contavano a centinaia. In quegli anni gli artigiani locali, con la loro bravura erano in grado di fabbricare sul posto qualsiasi prodotto richiesto nel mercato locale. Mio padre, falegname, che  allora aveva la  bottega in Via Ruggero Settimo, mandava spesso me, che ero ragazzo, da detto fabbro, per ordinare o per ritirare le ferramenta necessarie per arredare gli infissi in legno da lui fabbricati.

    Dopo quegli anni le strade della vita biforcarono e persi di vista il nostro amico in esame. L’officina di “chiavitteri” aveva delle caratteristiche particolari che la differenziava dalle altre botteghe di artigiani: allora per lavorare il ferro, in mancanza di saldatrice e trapani di una certa potenza, si usava il fuoco prodotto nella forgia col carbon fossile, che restava acceso tutto il giorno. Quindi, la bottega era sempre nera di fuliggine e lo stesso fabbro era nero in viso e portava vestiti neri per mimetizzare il fumo che portava addosso.

    L’incudine era un altro attrezzo particolare che non restava mai in silenzio, ma suonava sotto i colpi del martello. Successivamente l’industria del Nord, favorita da una politica economica antimeridionalista del governo con una spietata concorrenza ha soppiantato tutti gli artigiani locali, che hanno chiuso a poco a poco ogni attività. Rimasero  quegli artigiani che eseguivano soltanto piccoli lavori e riparazioni.

    "Lu zzu Nanà" seguì le sorti del tempo. L’ho rivisto dopo tanti anni in una piccola bottega, posta nella circonvallazione di via A. Diaz. Ormai anziano eseguiva  soltanto piccoli lavori; una volta mi ha costruito una “balata di furnu” (coperchio), che mi serviva  per completare il forno in muratura, che io orgogliosamente avevo costruito con le mie mani e con l’aiuto di mia moglie.

    "Lu chiavitteri" era il fabbro ferraio, che lavorava il ferro per costruire tutti gli accessori metallici per completare gli infissi preparati dal falegname: “firriggiara, succuli, lucchetti, toppi (serrature), chiavi, chiavini”, “cancareddi” (le antiche cerniere) ; ma costruiva anche gli attrezzi per l'agricoltura: “zzappa, zzappuni marsalisi, zzappuni strittu, zzappudda, rasula, faci, birrina, cafuddaturi (o chiantaturi), accetta,accetta a du’ manu, ccittuni,  rastreddu, vommara, rincigghiu, ancinedda, furlana, furlanedda, runca, trirenti, furcali”, e per il muratore: “martiddina, mannàra, pala, cardarella, zappa per impastare, subbia, cazzola”, nonché ringhiere di balconi, ringhiere e passamano per le scale, lampadari; inoltre “azzariava” (aggiungeva un pezzetto di ferro acciaioso) le zappe e tutti quegli attrezzi di campagna e di muratori che, con il lavoro si consumavano facilmente.

    Fino agli anni 40 circa faceva anche i chiodi di ferro rudimentali per il falegname e per il maniscalco, che la grande industria ancora non fabbricava in serie.

    Ma il fabbro preparava anche tanti lavoretti per il carretto siciliano: “circuna”, “rabischi” (ornamenti di origine araba), fuso, “grannula” (dado del fuso, che fissa la ruota), “chiavi” per stringere la “grannula”,  “chiavi di ferru”, che sorregge le aste. I ferri per gli zoccoli degli animali da soma, e i “mezzi ferri” per i buoi erano preparati dal maniscalco, ma spesso era il fabbro a prepararli. Inoltre, un bravo fabbro era in grado di rendere acciaioso un pezzo di ferro, ponendolo opportunamente nell’acqua, dopo averlo fatto diventare incandescente.  

    Siccome c’era molta richiesta di  lavori in ferro, nella vecchia Castelvetrano esistevano diecine di fabbri. Io ne ricordo soltanto alcuni: In Piazza Ruggero Settimo (un certo Giardina), in via Ruggero Settimo (gnoccula nivura), in Via Trapani, in Via Campobello in Via Felice Orsini (Vito Marino, un mio zio), in Piazza Regina Margherita (già citato), In Via D’Acquisto (Mancuso). Di fronte alla chiesa della Catena. Ma forse il più importante era la putia di Sammartano, all’angolo fra la via Amari e la Via Poerio; oggi qui esiste un parcheggio comunale.  

    Allora non si lavorava l’alluminio, tutti i lavori erano eseguiti in ferro; ancora non c’era la saldatrice e i vari pezzi di ferro si univano con dei perni incandescenti che infilati in buchi già preparati, si ribattevano oppure due pezzi di ferro si potevano unire rendendo le punte incandescenti e battendoli insieme  col martello.  

    Il fabbro si chiamava “chiavitteri”, perché il bravo artigiano era in grado di fabbricare “la toppa” (serratura) che conteneva anche una molla di un acciaio speciale, e  la relativa grossa chiave, dove eseguiva delle lavorazioni, nella parte della “bannera” che dovevano combaciare con quelle della serratura, però in negativo; un concetto già difficile a spiegarlo, capirlo e, quindi, eseguirlo.  

    Una scena molto particolare era il battere del ferro incandescente sull’incudine. Il fabbro, mentre con la mano sinistra tratteneva tramite una lunga tenaglia il ferro incandescente, con la destra dava  il suo primo colpo con il martello, seguiva il colpo con la mazza dei suoi picciotti aiutanti (anche tre), che, in maniera alternata e ritmica, colpivano a loro volta il ferro rovente.

    Si trattava di un ritmo scandito a tempo musicale ben determinato, indispensabile per non colpirsi uno con l’altro. Alberto Favara, un musicologo siciliano considera questo ritmo di lavoro fra i ritmi musicali. 

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