Tendopoli, "Cudduredda" e non solo. Il Belìce commemora oggi il terremoto che cambiò la storia
di: Vito Marino - del 2018-01-14
(ph. Ino Mangiaracina)
La notte tra il 14 e 15 gennaio ricorre il cinquantenario del violento terremoto che nel 1968 colpì una vasta area della Sicilia occidentale: la Valle del Belìce, compresa tra la Provincia di Trapani, quella di Agrigento e quella di Palermo. Per la Sicilia fu il primo evento sismico dalle conseguenze tragiche dopo quello di Messina del 1908 .
Sono notizie dolorose, ma che bisogna ricordare; tuttavia qui non voglio rivangare i dati statistici, i danni, il numero dei morti e dei feriti del grado delle varie scosse succedutesi, le zone colpite, perché sono dati facilmente rintracciabili e di cui se ne è parlato ampiamente molte volte in altre occasioni. Preferisco ricordare altri aspetti del terremoto poco noti. Intanto voglio dare la mia testimonianza personale e quella di qualche cronista dell’epoca che si è interessato del triste evento.
LA MIA TESTIMONIANZA
Dal 1964 ero in servizio presso le ferrovie dello Stato a Bicocca di Catania. La sera le 15 gennaio mi trovavo a passeggiare lungo la via Etnea di Catania, quando ho letto su un giornale a caratteri cubitali i primi annunci del disastro avvenuto nella Valle del Belìce. Allora non c’erano i cellulari e i telefoni in casa erano rarissimi. Sul giornale ho letto che Castelvetrano era stato colpito in maniera lieve e non c’erano stati morti. Purtroppo i miei genitori, che qui abitavano, non avevano telefono per cui non ho potuto avere alcuna notizia. Non riesco a descrivere la mia ansia, che si è aggravata quando i miei superiori mi riferivano di non potermi lasciare libero per mancanza di personale. La macchina tritatutto dello Stato burocratico, ancora una volta aveva il sopravvento. Ho dovuto aspettare circa 20 giorni prima di potermi recare a trovare i miei cari, non sapendo se erano vivi o morti.
Ho saputo, in seguito, che i dirigenti della ferrovia in quei giorni aveva emanato delle disposizioni per lasciare liberi i dipendenti che avevano parenti nelle zone interessate e addirittura concedevano giornate di assenza giustificata e il trasferimento nella stazione più vicina all’abitazione dei parenti. Ma queste disposizioni furono nascoste dal mio Capo Stazione Titolare, per non avere rogne nel disbrigo delle pratiche. Questa sola testimonianza potrebbe bastare per avere un’idea in quale ambiente sociale si viveva. Quando finalmente il 24 gennaio sono arrivato alla stazione ferroviaria di Castelvetrano, i binari di stazionamento erano pieni di vetture ferroviarie dove si erano rifuggiate molte famiglie.
La casa dei miei familiari non aveva subito danni, ma loro si erano ridotti a vivere per circa un mese seduti dietro il portone di casa pronti a scappare fuori al primo accenno di pericolo. Il giorno dopo, 25 gennaio, fui testimone di una fortissima scossa tellurica avvenuta alle ore 10:56. Inutile descrivere i sentimenti di paura provati in quei momenti, perché bisogna provarli per comprenderli. In Piazza Dante ho trovato tante baracche di legno costruite da privati cittadini; presso le scuole elementari della stessa piazza, si era trasferito l’ospedale rimasto inagibile. Baracche si trovavano ovunque in spazi vuoti pubblici o privati. Anche nella villa R. Margherita c’erano altre baracche, sicuramente ce n’erano in altri spazi pubblici, campo sportivo compreso. Ho assistito alla demolizione della chiesa della SS. Annunziata, meglio nota come “la Batia”.
Invece di salvare il salvabile una grossa ruspa ha buttato giù le tre mura portanti che il terremoto aveva salvato. Infine, con una grossa corda d’acciaio si cercava di tirare giù le colonne rimaste integre. Il grosso trattore però girava i cingoli a vuoto fino allo spezzarsi ripetutamente della corda.
Fu allora che si decisero a fermare la strage. E’ noto a chi era presente in quei giorni che la chiesa di San Giuseppe e il Monastero attiguo di Santa Teresa avevano subito pochi danni, ma anche qui la furia devastatrice dell’uomo, più che del terremoto ha buttato giù tutto. ALTRE TESTIMONIANZE Riporto altre testimonianze di persone che hanno vissuto in prima persona quei momenti di terrore: L'inviato speciale Mario Bernardini del Corriere della Sera del 20 gennaio 1968, riporta l’intervista fatta al prof. Giuseppe Ferrara, giovane primario chirurgo dell'ospedale di Sciacca: <<Stavamo operando, il pavimento ci ballava sotto i piedi. Sentivo accanto a me la suora assistente che recitava le sue preghiere mentre mi porgeva i ferri, attenta e precisa come sempre[...] Eravamo in sala chirurgica dalle 8 del mattino. Non c'era un momento di sosta fra un intervento e l'altro[...] Uno solo di tutti quelli che abbiamo operato è morto. Gli altri, senza una gamba, senza un braccio, li abbiamo tutti salvati>>.
-Egisto Corradi, altro inviato del Corriere della Sera, in un suo articolo mette in evidenza la mancanza di coordinamento in merito alla distribuzione degli aiuti alimentari che arrivavano da tutta Italia e aggiunge: <<La pioggia ha ridotto la piana ad un acquitrino nel quale si affonda fino alle caviglie... Macchine ed autocarri si sono impantanati sia tra le
tende che lungo la strada, continuamente bloccata da ingorghi>>. I feriti furono migliaia e, con enorme difficoltà, i più gravi furono trasportati negli ospedali di Palermo, Agrigento e Sciacca. -In Un articolo di Giuseppe Servello, cronista del Giornale di Sicilia si riassume tutta la tragedia svoltasi nella Valle del Belìce. Si tratta della storia di Eleonora Di Girolamo, chiamata in casa “Cudduredda”, (una forma di pane rettangolare da mezzo chilo) una bambina di 6 anni e ½ che fu salvata dopo essere rimasta sepolta dalle macerie per 60 ore. Ma la bambina era rimasta troppo scioccata e, malgrado le cure dei sanitari dell’ospedale di Palermo, non si è ripresa più lasciandosi morire, con i suoi grandi occhi pieni di espressione e dolore rivolti fino all’ultimo momento verso la madre, sopravvissuta anche lei.
LA SITUAZIONE NELLA VALLE DEL BELI’CE
Nel territorio del Belìce già dagli anni '50 Danilo Dolci rileva le condizioni di vita della popolazione, la povertà delle case e la convivenza di bestie e uomini sotto lo stesso tetto. Fino alla data del terremoto, il territorio della Valle del Belìce si presenta dimenticato e abbandonato a se stesso: niente industrie, tenore di vita misero, i giovani erano tutti emigrati in Svizzera, Germania, Belgio, lasciando spesso i propri figli agli anziani rimasti, che continuavano a tenere in vita una arcaica agricoltura e pastorizia, per sopravvivere. Proprio in Belgio, nelle miniere di carbone di Marcinelle nel 1956 avevano perso la vita tanti giovani lavoratori siciliani, sicuramente qualcuno di questa Valle. Le case erano fatiscenti, costruite con pietre o mattoni di tufo, con travi di legno a sorreggere il tetto di tegole, mancavano i cordoli di cemento. Esisteva solo qualche architrave di cemento armato isolato che ha peggiorato la stabilità degli edifici.
Le autostrade in Sicilia ancora erano un sogno. e le strade statali erano ancora quelle lasciate dai Borboni. Per arrivare a Palermo, da Castelvetrano occorrevano tre ore d’auto e bisognava attraversare tutti i centri abitati che s’incontravano; col terremoto vennero in parte inghiottite dalle voragini o dalle frane, ostacolando l’opera dei soccorsi per portare i feriti gravi negli ospedali più vicini di Sciacca e Palermo.
LE TENDOPOLI E LE BARACCOPOLI
Come primo provvedimento di emergenza, l'esercito organizza sulla neve appena caduta, le varie tendopoli, che rimarranno montate dai sei mesi ad un anno e nove mesi. Un tempo veramente lungo, abbastanza sufficiente per far morire di freddo e di stenti quei fortunati che non sono morti per il sisma. Le tendopoli vengono organizzate dai soldati, come veri e propri campi militari, sveglia alla stessa ora, colazione e pasti tutti in fila, anche gli anziani. L'intimità è ormai dimenticata, si vive insieme, più famiglie nella stessa tenda. I politici arrivano sul luogo in elicottero, osservano le condizioni dei terremotati, promettono loro case e lavoro, e poi tornano indietro.
I capitani e i colonnelli delle tendopoli impongono il rispetto di regole eccessive. È vietato fare di testa propria, non ci si può radunare in gruppo per parlare del futuro, c'è già chi ci sta pensando per loro, questa la risposta delle istituzioni. Anche un dialogo fra tre o più persone può diventare una riunione sediziosa e in quanto tale deve essere sciolta per evitare la possibilità di ribellioni da parte dei cittadini.
Dopo la tendopoli inizia il lungo calvario della baraccopoli, ma quanto meno si trattava di una abitazione a livello di uomo. Per dare un’idea dei lunghi tempi trascorsi prima di possedere una civile abitazione, riporto alcuni dati: Nel 1973 i baraccati erano 48.182, nel 1976 erano ancora 47 mila. Le ultime 250 baracche con i tetti in eternit furono smontate solo nel 2006.
LE LOTTE
Ma per fare arrivare i primi finanziamenti, i terremotati hanno lottato strenuamente contro una burocrazia e una politica miope di governo. A Partanna, durante una riunione spontanea di terremotati, sono sorti i Comitati di tendopoli, che ebbero il ruolo di evidenziare la vita nelle tendopoli, diventate dei “lager”, chiedendo nello stesso tempo l’urgente ricostruzione delle case. In questa lotta Lorenzo Barbera (Partinico, 1936), sociologo e grande comunicatore, fu uno dei protagonisti della lotta non violenta promossa da Danilo Dolci in Sicilia a partire dagli anni cinquanta.
Egli scrisse nel suo libro “I ministri dal cielo” la storia del terremoto, l’arrivo dei ministri con l’elicottero (dal cielo) e tutte le lotte intraprese col sistema della “disubbidienza civile”. Ci furono proteste pacifiche a Palermo e a Roma, dove parteciparono a migliaia i terremotati. Ricevettero rifiuti, cariche della polizia, sequestro dei bus e striscioni, arresti. Ma le proteste non si limitarono a sollecitare la ricostruzione, i comitati decisero di non far pagare le tasse e smisero di pagare le bollette: i moduli affluivano nei comitati locali e poi venivano spediti a Roma. Il governo dovette poi cedere alla protesta non facendo più pagare le tasse locali. La stessa lotta pacifica fu intrapresa affinché i giovani potessero prestare servizio civile nella zona del terremoto al posto del servizio di leva.
Dopo tante lotte il governo cedette e approvò la legge sul Servizio Civile nel Belìce per la ricostruzione e anticipò di qualche anno quella che poi nel 1972 divenne una Legge nazionale che permetteva il Servizio Civile sostitutivo di quello militare. In quegli anni di lotta sugli striscioni e sui muri si scrisse: "La burocrazia uccide più del terremoto", I benpensanti governanti hanno pensato bene di ricostruire i paesi in luoghi più sicuri evitando di ricostruire sul posto gli stessi edifici. Così si sono costruite città giardino di nordica memoria, case a schiera e villette anch'esse anglosassoni più che mediterranee, queste le case nuove e soprattutto le città nuove. le tipologie urbanistiche e architettoniche usate dai progettisti dello Stato - tra cui l'ing. Fabbris che ne era il supervisore - appartengono a culture più vicine alla Danimarca, all'Olanda, all'Inghilterra o alla Svezia, piuttosto che alla cultura mediterranea.
I paesi distrutti dal terremoto avevano già una loro storia e una loro identità storico culturale da secoli. Gli abitanti vivevano generalmente in abitazioni a piano terra, dentro i cortili; tutti si conoscevano ed usavano molta solidarietà, che teneva saldi i vincoli di parentela o di amicizia e comparato che fra loro esisteva; un fattore umano che, in zone così povere e arretrate vale più di tanti tesori messi assieme. La pima cosa che è cambiata dopo il terremoto per la popolazione belicìna è il nome Belìce che i giornalisti di allora hanno cambiato in Bèlice. ponendo l'accento sulla “e”, anche se proprio il dizionario in dotazione alla RAI, edito nel 1961, poneva l'accento sulla “ì”.
Se i finanziamenti arrivarono in ritardo, tuttavia c’è stato uno spreco pazzesco di denaro pubblico, con la costruzione di inutili opere faraoniche, come quelle di Gibellina, città-museo progettata da famosi architetti e artisti. Una spesa inutile, perché non si è fatto nulla per l’occupazione lavorativa degli abitanti. La ferrovia Salaparuta-Castelvetrano che collegava la maggior parte dei centri dell'area terremotata con la zona costiera, distrutta dal sisma non venne mai più ricostruita, nonostante avesse un buon traffico viaggiatori. E’ stato merito del terremoto se in Sicilia si costruirono le autostrade.
LA STORIA DI CUDDUREDDA
In Un articolo di Giuseppe Servello, cronista del Giornale di Sicilia si riassume tutta la tragedia svoltasi nella Valle del Belìce. Si tratta della storia di Eleonora Di Girolamo, Chiamata in casa “Cudduredda”,(una forma di pane da mezzo chilo dalla forma rettangolare o quasi) una bambina di 6 anni e ½ che fu salvata dopo essere stata sepolta dalle macerie per 60 ore. Ma la bambina era rimasta troppo scioccata e, malgrado le cure dei sanitari dell’ospedale di Palermo, non si è più ripresa lasciandosi morire, con i suoi grandi occhi pieni di espressione e dolore rivolti fino all’ultimo momento verso la madre, sopravvissuta anche lei. VITO MARINO