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La semina del grano e l’Estate di San Martino. Quando la fede "guidava" gli agricoltori

di: Vito Marino - del 2018-11-14

Immagine articolo: La semina del grano e l’Estate di San Martino. Quando la fede "guidava" gli agricoltori

Oggi molti giovani sanno soltanto che il pane e la pasta si comprano al supermercato, pochi conoscono la materia prima usata e tutti i lavori necessari per produrla. Anche se non c’erano più i grandi feudi coltivati a grano, come avveniva nel 1800, negli anni ‘46-51, del 1900, quando frequentavo la scuola elementare, l’agricoltura era tenuta ancora in grande considerazione; i temi da svolgere si riferivano spesso ai lavori dei campi ed in modo particolare a tutto il ciclo del grano.

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  • Attraverso i miei ricordi d'infanzia e da quanto ho appreso da vecchi contadini (fonte inesauribile di notizie sulla scomparsa civiltà contadina), cercherò ora di descrivere i lavori una volta necessari per la semina del grano.

    I contadini dell’Ottocento consideravano sacro il grano e lo raffiguravano alla passione e morte di Gesù Cristo. Infatti, l’umile pianticella: veniva falciata, trasportata nell’aia come il Salvatore sul Calvario; e qui battuta, calpestata, maciullata, come avvenne per il Salvatore, e tutto questo per nutrire l’uomo sotto forma di pane.

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  • Si comprende allora perché i contadini mettessero ogni fase del ciclo del grano e la stessa panificazione sotto la protezione di Dio, della Madonna e dei Santi. I metodi di coltivazione, come la rotazione agraria, erano molto antiquati, gli stessi usanti dai tempi degli antichi romani. Il contadino, per restare sotto la protezione dei Santi cominciava a seminare il giorno di Tutti i Santi, e finiva entro il 30 novembre, giorno consacrato a Sant’Andrea. Infatti allora si diceva: "La prima a Tuttisanti, l’ultima a Sant’Antria".

    In pratica il periodo dell’anno adatto per la semina era l’Estate di San Martino, una settimana di buon tempo che ogni anno si ripete intorno all’11 novembre. Ma, per iniziare, nessuno però aspettava oltre l’11 novembre, perché: "Pi San Martinu, lu furmentu megghiu sutta terra chi a lu mulinu", nè terminava dopo la festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio), perché: “Nzina a Sant’Antoniu, li simenzi su boni". Un altro proverbio diceva: "Pi Sant’Antoniu / tinti e boni, / doppu Sant’Antoniu sulu i boni" (Fino a Sant’Antonio (17 gennaio) si possono seminare terre buone e cattive, dopo Sant’Antonio solo le terre buone).

    Spesse volte, per mancanza di pioggia o per pioggia eccessiva, si doveva rinviare la semina fino a marzo. In questo caso era consigliabile seminare a marzo il grano “tumminia”, le cui rese erano di solito inferiori a quelle di qualsiasi altro tipo di frumento, ma aveva la proprietà di recuperare il tempo vegetativo perduto e di essere mietuto nel mese di luglio o al massimo nei primi di agosto.

    Secondo il Pitré "Il terreno aveva bisogno di essere preparato nel corso dell’anno, con quattro “conzi” (arature). A marzo si arava per la prima volta “si ciacca”; a maggio o giugno si arava per la seconda volta “si dubra”, facendo i solchi in linea opposta a quelli di prima; ad agosto si “rintrizza” (si ara per la terza volta); finalmente, a seconda delle condizioni atmosferiche si ara per la semina".

    Quando per tirare l’aratro il contadino si avvaleva del bue, doveva “firrari” gli zoccoli con i “mezzi ferri”, perché il bue ha lo zoccolo del piede più piccolo di quello degli equini. In questi casi l’animale era chiamato “Lu voi a lavuri” (preparato per lavorare con l’aratro).

    Lu lavuraturi” (chi arava) impiegava diverse giornate di questo duro lavoro, per “mettiri ‘n conza la terra” (preparare il terreno alla semina), spesso con le scarpe pesanti a causa della terra umida attaccata alla suola.

    Da ricerche fatte fra i contadini mi risulta che i tipi di frumento coltivati nelle nostre zone erano: “Russulidda (con le spighe e le reste rossicce), bianculidda, bilì, saracinu, zizzìa. e tumminìa”. I chicchi di grano da semina si doveva “assiddirii” (selezionare) in casa dalle donne, quindi disinfettare col “silestru  (solfato di rame) contro eventuali malattie da funghi, come il “mascareddu” (male della volpe), che attacca la spiga riducendola in polvere.

    La semina poteva avvenire a “spagghiu” detto anche a “pruvinu” o a “sulicu”: Nel primo caso, “Lu siminzeri” (chi spargeva le sementi), con “la coffa tumminara” messa a tracolla sulla spalla sinistra, prendeva con la mano destra il grano spargendo il grano con un largo gesto della mano.

    Nella semina a “sulicu” i semi si introducevano in un imbuto provvisto di una lunga cannella, che faceva cadere il grano direttamente nel solco. In ogni caso, dopo la semina si passava l’ erpice per coprire i solchi e interrare i semi.

    A marzo, l’interfilare si zappava con "lu zzappuneddu” (la zappetta stretta), per rendere soffice il terreno e per togliere le erbacce. Nel terreno seminato “a spagghiu”, con la zappetta si toglievano soltanto “l’anitru” (la ridolfia), “il tren” (melitolo) e il “giogghiu” (il loglio) velenoso.

    Dopo la semina occorreva ora mandare via gli uccelli, perché avrebbero beccato una parte delle sementi; tale compito era affidato alla numerosa prole, che, percuotendo delle lattine, li spaventava e non li faceva posare per terra.

    Qualcuno metteva gli spaventapasseri con dei fantocci a somiglianza d’uomo.

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