Quando a CVetrano c'era la "putia di carritteri“ dei fratelli Giacomarro
di: Vito Marino - del 2019-03-31
Ad un’età avanzata come la mia, il ricordo della mente corre a ritroso nel tempo e si ferma in maniera giuliva agli anni dell’infanzia e della prima giovinezza; di contro, i ricordi più recenti passano inosservati e non memorizzati, mentre l’incerto futuro non lo si usa mai.
Gli anni che maggiormente hanno impressionato la mia mente sono quelli degli orrori della guerra, quando ancora avevo due anni, che preferisco non parlarne, e gli anni ’50. Gli anni 50 per la storia della Sicilia sono stati ricchi di mutamenti strutturali della società, in quanto si è passati dalla Civiltà Contadina ormai al tramonto, alla civiltà industriale del benessere e del consumismo.
Questo passaggio è stato drastico per tutte le attività economiche siciliane: i prodotti agricoli subirono la concorrenza straniera e le nostre piccole attività industriali e artigianali scomparvero. Quando passo dalla via B. D’Acquisto guardo sempre, con nostalgia, un vecchio edificio che forma angolo con la via XXIV Maggio.
Qui c’era “’na putia di carritteri“ (costruttore di carretti, carradore) dei fratelli: Pasquale e Leonardo Giacomarro, rispettivamente carradore e pittore di carretti, un’attività scomparsa rimasta soltanto nei ricordi chi vi ha vissuto in quegli anni.
Ci sono ancora due portoni chiusi sin dagli anni ’70, e, sporgenti dal muro ci sono ancora due robusti pezzi di ferro, come da foto, che ad un profano sembrano oggetti misteriosi indecifrabili; solo chi ha vissuto in quegli anni o che conosce quel mestiere scomparso può scoprire l’uso che se ne faceva. Infatti, fra queste due sporgenze, iniziando da una estremità, si infilava un’asta di ferro dalle dimensioni ben definite e, facendo forza dall’altra estremità, si riusciva a curvarla, poco per volta, con competenza, fino ad ottenere un cerchio perfetto, che rappresentava “lu circuni” che teneva ben stretti tutte le parti della ruota.
Volendo la certezza matematica su questa mia affermazione, mi sono rivolto a Mancuso, un caro amico di anni 87, che è nato e cresciuto in quella via e, prima di impiegarsi al Comune di Castelvetrano faceva “lu firraru” (il fabro) col padre, in una bottega artigianale posta nella stessa via.
Costui ha confermato la mia tesi, ed ha aggiunto che erano loro stessi fabbri, padre e figlio, ad usare il marchingegno appeso al muro, quindi portavano il cerchione nella loro bottega per la saldatura “a fuoco” delle due estremità. In quegli anni Il fabbro ferraio preparava tutte le parti in ferro necessari al carretto, come: “lu fusu”, compreso di “cugna di fusu”, una struttura in ferro battuto che univa l'asse delle ruote al fondo della cassa e la “grannula” (un grosso dado filettato all’interno, che impediva la fuoruscita della ruota dall’asse portante “fuso” ); inoltre costruiva “lu circuni” delle ruote (già citato), i tiranti, il parafango, i bulloni e “l’occhi d’asta”. Infine, valenti maestri fabbri, come la famiglia Mancuso, realizzavano in ferro battuto ornamenti figurativi dello stile arabo, che sono chiamati "rabischi". - “LU RAMATURI”, invece, aveva la fonderia e sapeva costruire le campane di chiesa e le parti di rame del carretto, come “li punti d’asta o biccheri” (la parte terminale di davanti delle aste), le boccole delle ruote e “li mmurri d’asta” (la parte terminale posteriore delle aste).
Occorreva molta perizia, mi conferma Mancuso, per la costruzione del fuso nella parte rotonda, dove trova alloggiamento la ruota; tutto si effettuava a mano con martello e due mazze usate da due aiutanti, riscaldando ripetutamente il ferro alla fucina.
Ma, il fabbro ferraio sapeva lavorare anche il ferro per costruire tutti gli accessori metallici per gli infissi: “firriggiara, succuli, lucchetti, toppi (serrature), chiavi, chiavini”, e sapeva costruire anche gli attrezzi per l'agricoltura: “zzappa, zzappuni marsalisi, zzappuni strittu, zzappudda, rasula, faci, birrina, cafuddaturi (o chiantaturi), accetta, rastreddu, vommara, rincigghiu, ancinedda, furlana, furlanedda, trirenti, furcali” e per il muratore: “martiddina, mannàra, pala, cardarella, zappa per impastare, cazzola”, nonché ringhiere di balconi, ringhiere e passamano per le scale, lampadari; inoltre “azzariava” (aggiungeva un pezzetto di ferro acciaioso) le zappe e tutti quegli attrezzi di campagna e di muratori che si consumavano facilmente lavorando.
Fino agli anni 40 circa faceva anche i chiodi rudimentali per il falegname e per il maniscalco. Siccome in quegli anni molti lavori erano eseguiti per strada, allora libera dalla circolazione di macchine, ricordo che il carradore metteva delle grosse pietre a doppio cerchio con dentro dei tronchetti accesi; sopra vi posava un cerchione di ferro che, divenuto incandescente, era preso (da almeno due persone) con delle lunghe pinze e calzato alla ruota del carretto, già pronta. Il legno si bruciacchiava e cigolava, ma subito dopo aver sistemato tutto con martello, leve e altri attrezzi, il carradore vi versava sopra acqua a poco a poco; il ferro, già dilatato per il calore, si raffreddava e stringeva la ruota in una morsa.
Per la costruzione di un carretto occorreva più di un mese di lavoro. Si trattava di un’opera d’arte collettiva in quanto diversi artigiani contribuivano a realizzarlo.
All’inizio del 1900 la manifattura del carretto siciliano diviene lavoro di squadra di 6 artigiani: il carradore, l’intagliatore, il tornitore, il fabbro, “u’ usciularu”, il pittore. - “LU CARRITTERI” (carradore), secondo le sue capacità artigianali costruiva “carretti, carruzzina, domatrici, carrozzi e traìni”. “Lu carruzzinu” era il calesse; la “domatrici”, era un carro con le balestre, a quattro ruote, adibito al trasporto di persone (a sei posti). “Lu traìnu” era un carro a quattro ruote senza “casciata” (fondo) e senza “laterali” e serviva per il trasporto di oggetti voluminosi o molto pesanti, come il marmo. “Lu carritteri” (carradore) era chiamato anche "mastrurascia d'opiri grossi" (falegname d’opere grosse), per distinguerlo dal (mastrurascia = mastro d’ascia), detto anche “mastrurascia d’opiri fini”. Inoltre, assemblava le parti preparate dall’intagliatore, dal “firraru”, dal “ramaturi” e dal “turniaturi”.
In quegli anni, malgrado la crisi degli artigiani, oltre che degli industriali, c’erano a Castelvetrano numerosissimi piccoli artigiani, che direttamente o indirettamente lavoravano per la costruzione di carretti e di attrezzi vari, lavori che l’industria del Nord non era in grado di effettuare per mancanza di conoscenza della nostra civiltà ancora arcaica.
Nella stessa via B. D’Acquisto, dalla parte opposta, all’angolo con via Rosolino Pilo, c’era Nunzio Pellegrino, che aveva la “putìa di pitturi di carretti”.