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Quando Giugno era il mese della mietitura manuale del frumento. Ricordi e aneddoti di un tempo che fu

di: Vito Marino - del 2019-06-13

Immagine articolo: Quando Giugno era il mese della mietitura manuale del frumento. Ricordi e aneddoti di un tempo che fu

Un vecchio proverbio dice: “Giugno la falce in pugno”; oggi con la mietitura meccanizzata, bisognerebbe modificarlo. Infatti, per millenni e fino al 1950 circa, nel mese di Giugno si procedeva alla mietitura con la falce a mano, sotto il sole inclemente, che picchiava sulle spalle ricurve. La falce era dentata nella parte tagliente, l’impugnatura era di legno e l’apice a punta. Il contadino sull’impugnatura della falce tracciava col coltello le iniziali del proprio nome o delle figure come segno di riconoscimento, ma anche contro il malocchio.

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  • Una volta, con la mietitura manuale, i contadini “iurnateri adduvati” (giornalieri) erano impegnati a migliaia per tutto il mese di Giugno. Se c’era da mietere il grano “tumminia” si mieteva anche fino ad Agosto. E’ giusto precisare che la “tumminia” era in tipo di grano che si poteva seminare anche a gennaio ed era pronto per la mietitura nei primi di Agosto. La semina a Gennaio poteva avvenire per motivi del contadino o per le eccessive piogge di Novembre e Dicembre, che impedivano la lavorazione dei campi e la semina.

    Per questo motivo la “ristuccia” (le stoppie), per disposizione di legge, si potevano bruciare solo dopo il 15 agosto. A Castelvetrano, fino agli anni ’50 si coltivava ancora molto grano. I mietitori, finito il lavoro nella pianura, andavano a mietere “’n susu” (in alto, cioè in montagna).Quindi, i mietitori si spostavano da un posto ad un altro o addirittura da un paese ad un altro.

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  • Volendo dare una mia testimonianza su questi spostamenti di contadini, nel 1964 trovandomi a Catania in servizio nelle ferrovie, vedevo arrivare, di mattina presto, ancora al buio, i treni provenienti da Caltagirone e Regalbuto pieni di questi lavoratori. In quegli anni già la piana di Catania era stata bonificata con l’irrigazione e la coltura delle arance, eppure c’erano ancora terreni coltivati a frumento che richiedevano molta mano d’opera.

    A causa della fatica e del caldo capitava che qualche mietitore non ce la faceva e moriva sul posto di lavoro. La sua morte passava quasi inosservata, perché il prodotto della campagna aveva più valore della vita di un contadino. Il mietitore, per non farsi pungere dalle reste del frumento, usava dei pantaloni di “ntoccu” (un cotone pesante) e “causi di tila” (mutande) lunghe fino alla caviglia, inoltre si metteva 'lu vrazzali' al braccio e 'lu pitturali' al petto, fatti della stessa tela; per non procurarsi ferite con la falce si metteva dei 'canneddi' (tronchetti di canna) alle dita (medio, anulare e mignolo) della mano sinistra, perché più esposti al pericolo; per ripararsi dai reggi del sole portava in testa un largo cappello di paglia o di “curina”.

    Il punto di inizio della mietitura si chiamava “Antu” . I mietitori iniziavano a mietere con le spalle rivolte contro il vento, cioè al lato opposto alle spighe piegate, al fine di non pungersi la faccia. I mietitori, al primo taglio di prova, dicevano: “A nomu di Diu, ch’è nomu sicuru!” quindi, con la mano sinistra stringevano alcuni steli e con la falce, stretta nella mano destra, li tagliavano; ripeteva quest’operazione per tre volte (cioè quante spighe poteva contenere la mano) a seconda se il frumento è “spanu” (rado) o “nfutu” (folto), quindi con uno stesso stelo annodava il manipolo e lo metteva per terra. Lo stesso faceva il compagno che lavorava a fianco, disponendoli a tre a tre.

    Un altro contadino “lu ligaturi” seguiva i mietitori, tenendo al fianco i legacci (liami di ddisa); egli, con "l'ancina” (uncino di ferro col manico di legno), tirava a sé il frumento e con “l’ancinedda” (una forcina (specie di Y) di legno incastrava i manipoli. Una “ancinata” era la quantità di manipoli che si potevano raccogliere in una sola operazione di “’ncoccia e scoccia” con i due attrezzi.

    Ogni 6 ancinati (mazzetti) raccolti, si formava una “jermita”. Dopo avere steso per terra una liama, vi depositava sopra una volta cinque Jermite e una volta quattro, a testa e coda (le spighe sistemate sempre ai due esterni del mazzo ed i gambi all’interno), 9 di esse formavano una 'regna' o 'gregna' (covone); 6 “regne” formavano un 'cavaddunciu' (quanti ne poteva portare sul dorso un animale da soma), tre a destra e tre a sinistra.

    Quando si trattava di mietere grandissime estensioni di terreno, come avveniva nei feudi, c'era lavoro per molti mietitori, che erano divisi in due squadre: una a destra ed una a sinistra con un capo squadra ciascuna: 'lu capu di manu ritta e lu capu di manu manca'. Quello che comandava tutti i  mietitori era però quello di destra, perché conosceva tutte le preghiere. Secondo Salomone Marino ogni squadra erano formate da otto mietitori. da sette uomini e un liaturi,. C'era pure “l’acqualoru”, un garzone che girava fra i mietitori, con il “ciascu” (la brocca dell'acqua), per portare da bere.

    Il proprietario, spesso, per rendere più celere il lavoro, anziché acqua, forniva vino ai contadini. 'Lu capu di manu ritta' prima di “mettiri manu” (iniziare a lavorare) si scopriva il capo e diceva a voce alta: “Sia ludatu e ringraziatu ogni mumentu lu santissimu e divinissimu Sacramentu” e gli altri rispondevano “Sempri sia ludatu”.

    Lo stesso avveniva ad ogni “livata di manu” (ora di smettere); inoltre, prima dei pasti principali faceva recitare ai mietitori delle preghiere con dei ringraziamenti al Signore per il lavoro eseguito, per il raccolto e per il cibo che dovevano consumare:

    - 'Sia ludatu e ringraziatu lu Santissimu e Divinissimu Sacramentu (detto tre volte) E tri boti laudatu sia e scatta lu nfernu e triunfa Maria E cu tri chiova fu nchiuvatu Cristu e senza chiova la matri Maria Na funtanedda a li peri di Cristu, chi fu fatta cu li larmi di Maria'.

    Dopo seguivano i vari Pater Noster, Ave Maria, “Lòria Pàtrisi” (Gloria al Padre), Salve Regina e ringraziamenti per tutti i santi protettori. Siccome si trattava di un’attività molto pesante, perché si lavorava “di li sett’arbi” (dalla mattina molto presto) fino “a la scurata” (sera), i mietitori solevano mangiare (secondo gli accordi con il padrone) anche sei volte al giorno:

    - Il primo pasto si faceva, quasi al buio, quando “zingava l’arba” (si percepiva appena l’alba) con pane, aglio e vino e si chiamava “pigghiari l’agghia o fari l’agghia”, la seconda volta alle ore 8 “manciari pi matina”, alle 10 “la suppa” con pane e vino, a “la mezza” (mezzogiorno) il pranzo, alle ore 16 la “mirenna” e, finalmente, la cena dopo avere finito ogni lavoro. Il pranzo e la cena si serviva “sutta la pinnata” (sotto un loggiato o pergolato).

    La pasta, condita con sugo di pomidoro o con pesto d’aglio, era versata direttamente sulla “buffetta” (tavolo rustico) o sulla “maidda” (tavola larga con piccoli bordi, usata per la “sarsa sicca” (concentrato di pomidoro, essiccato al sole). Si mangiava generalmente con le “forchette d’Adamo” o con quelle di canna.

    Quando si trattava di minestre, ogni porzione veniva versata in un “limmiteddu stagnatu” (ciotola di terracotta smaltata). Per gli altri pasti si arrangiavano, seduti per terra, su una pietra o un muricciolo. Se durante il pasto passava anche uno sconosciuto, questi si premurava a salutare “evviva Maria” e loro rispondevano “e Gesù e Giuseppi ‘n cumpagnia”, quindi si premuravano ad aggiungere: “a favuriri” e l’altro rispondeva “bon prurri vi fazza” (bon pro vi faccia) e accettava volentieri un sorso di vino.

    A volte gli accordi con il padrone erano “manciari a la scarsa” e qualcosa di più nella paga. Prima della cena si recitava la preghiera “Diu n’ha fattu p’un aviri vuci, emu a manciari ch’è fatta la cruci. Seguivano le preghiere di rito. Malgrado la stanchezza, dopo cena si cantava o si ballava al chiarore di luna o di qualche “spicchiu” (lucerna ad olio) accompagnati dal suono del “friscalettu” di canna e del mariolu (maranzano).

    Quando non c’erano le condizioni per ballare, si trascorreva qualche ora a discutere i problemi della campagna e qualcuno più “spiciusu” (scherzoso) raccontava “smafari e niminagghi vastasi” (barzellette e indovinelli apparentemente spinti) oppure si cantava. Nel passato molti contadini sapevano improvvisare versi o canzoni; così essi, stuzzicati dalla comitiva, rispondevano a rima poetica o con canzoni.

    Finita la mietitura potevano entrare nel campo “li spicalori” o “arraciuppatura” (le spigolatrici) per raccogliere qualche spiga caduta durante le varie fasi della mietitura. A spigolare andavano sempre le donne per arrotondare qualche piccolo guadagno, poiché gli uomini erano già impegnati con la mietitura. La spigolatrice portava con sé un sacco e vi poneva dentro la spiga, dopo aver tagliato lo stelo e le reste, al fine di diminuire il volume e portare così un maggior numero di spighe.

    A casa, finita la spigolatura, il grano veniva battuto, nel cortile o in un magazzino con una mazzotta di legno al fine di separare il chicco, quindi manualmente toglieva la paglia e, infine aiutata dal vento  separava il chicco dalla “ciusca” (pula) e dai residui di paglia. Seguiva tutto il lavoro della trebbiatura.

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