"Lu sceccu nicu e lu sceccu grossu". Nel ricordo dei fedeli "compagni" dei contadini in Sicilia
di: Vito Marino - del 2019-06-25
Le bestie da soma, di cui si serviva il contadino, ma anche l’artigiano di una volta per i lavori più pesanti, erano: il cavallo, il mulo, l’asino e il bardotto. Fra gli animali da soma, il mulo era il migliore in assoluto per forza e per resistenza fisica alla fatica; inoltre sapeva camminare nei sentieri stretti di montagna (le mulattiere), senza soffrire di capogiri.
Questo meraviglioso animale, che è un incrocio fra un asino ed una cavalla, era chiamato “mulu di iumenta” per distinguerlo dal “mulu di scecca” (bardotto), che è un incrocio fra un cavallo ed un’asina. La distinzione è evidente perchè il bardotto è più simile all’asino; qualcuno ai vecchi tempi lo chiamava “sceccu grossu”.
I contadini, per gli alti meriti di questo animale, lo consideravano insostituibile e di un valore superiore alle persone che facevano parte della sua famiglia. Così, in caso di morte preferiva quella di un familiare che quella dell’asino: “Centu voti la muggheri o ‘na figghia e no lu sceccu! Cu perdi lu sceccu perdi la vita so”. Il venir meno dell'asino era per il contadino un duro colpo: egli teneva in casa una specie di lutto, con persone amici e parenti che andavano a fare visita di consolazione.
Una volta se ne vedevano in giro due tipi: uno molto piccolo il “sardignolu” e un altro alto quasi quanto un mulo, il “pantiscu”. Ricordo che quando ero ragazzo di sera ritornava dai campi un vecchietto con un carrettino tirato da un asinello sardignolu; noi ragazzi ci divertivamo a far deviare il corso del carrettino spingendolo lateralmente da dietro.
Negli anni ’70 in un paesetto della Sardegna vedevo spesso un contadino che si recava a lavorare a cavallo di un asinello sardo, siccome le sue gambe toccavano per terra, era costretto anche lui a camminare con i suoi piedi. La carne dell’asino, oggi molto ricercata, una volta era considerata di cattiva qualità; infatti, quando la carne di vaccina presentava cattive qualità organolettiche, si diceva: “ma chi è carni di sceccu o sola di scarpi?”
In effetti, una volta l’asino era allevato per il suo lavoro. Si portava al macello solo, quando era vecchio o ammalato; di conseguenza la carne non era certamente fra quelle migliori. Quando questi animali si trovavano all’abbeveratoio, il padrone li incitava a bere con un fischio caratteristico. Ma se un asino aveva deciso di non bere era inutile il fischio del padrone. Un proverbio, infatti, diceva: “Quannu lu sceccu nun voli viviri, ammatula ci frischii”.
Quando durante un viaggio l’animale rallentava il passo, il padrone per stimolarlo lo colpiva con la frusta o lo aizzava con la voce oppure lo stimolava con un secco schioccare della lingua sul palato e sulla gengiva di destra. Fra gli animali da soma, l’asino era quello che costava di meno e che si accontentava di una cura e alimentazione più scarsa.
Quest’animale sembrava creato apposta per il povero contadino: era paziente, si accontentava di mangiare la paglia minuta e nodosa, (li ruppa), non aveva bisogno di essere strigliato giornalmente e si adattava ai lavori anche pesanti. Una volta come paragone si diceva: “travagghia comu un sceccu”.
Una volta il contadino era considerato agli ultimi scalini della scala sociale e spesso veniva identificato col suo asino. Molte canzoni siciliane del passato, conosciute e cantate da tutti, erano dedicate proprio all’asino. La membrana del tamburo si poteva fare con la pelle d’asino.
Anche la “strappa” (coramella), era ricavata dalla coda dell’asino; si tratta di una correggia di cuoio che serviva al barbiere per affilare il rasoio vecchio stampo a lama unica. Per i contadini di Sicilia fu un compagno fedele di lavoro: serviva come mezzo di locomozione per spostarsi dall’abitazione al podere, per trasportare i prodotti della terra, la legna per il focolare e gli attrezzi di lavoro; ma essendo molto cocciuto e meno robusto e intelligente degli altri animali da soma, era tenuto in poca considerazione dalla letteratura scritta e in quella orale, tramandata da padre in figlio, dove restava al centro di molti racconti a simboleggiare la rassegnata sfiducia del popolo alle avversità della vita.
Ne sono testimoni i numerosi proverbi siciliani di una volta, racconti e aneddoti vari. Il ragazzo che a scuola non rendeva era considerato “sceccu” (asino) e posto a sedere sull’ultimo banco “lu vancu di li scecchi” e trascurato dall’insegnante.
A questi ragazzi si soleva aggiungere: “Avi la testa dura comu ‘u sceccu”. In una barzelletta si affermava che gli asini ormai si son dati agli studi; infatti, l’università ne è piena. Sceccu arrinatu = asino trainato, si diceva ad una persona “scecca” (simbolo dell’ignoranza), che si lascia trainare da un’altra più furba. Quindi persona ignorante dal carattere debole..