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La tonnara di ieri e oggi tra Rais, mattanze e ricordi di una Torretta Granitola che fu

di: Anna Maria Bono - del 2019-07-09

Immagine articolo: La tonnara di ieri e oggi tra Rais, mattanze e ricordi di una Torretta Granitola che fu

I miei ricordi vanno molto indietro nel tempo e risalgono a circa 65 anni fa, quando io, sui 10-12 anni, cominciavo a prendere coscienza della realtà socio-ambientale che mi circondava.

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  • In quel tempo, puntualmente all’inizio dell’estate, mi trasferivo con i familiari nel borgo di Torretta Granitola per trascorrevi le vacanze.

    Questa località era, e continua ad essere, la mia vera patria, il luogo che, nei miei 80 anni di vita, ho amato maggiormente e in cui ho trascorso i periodi più felici. Allora la tonnara, che apparteneva alla famiglia Amodeo di Trapani, era in piena attività e ferveva di lavori sia in mare che in terraferma; era diretta dal RAIS Vito Barraco, collaborato dal sottorais Peppino, suo fratello minore.

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  • Ai miei occhi di ragazzina il RAIS appariva come un dio della mitologia greca perché aveva la responsabilità di tutti e di tutto, uomini e cose.

    Era lui, a seconda dei venti e delle correnti sottomarine, a decidere l’orientamento delle reti che venivano strategicamente calate in mare nelle adiacenze della limitrofa località di Tre Fontane.

    Era ancora lui ad intuire la traiettoria che avrebbe seguito il branco dei tonni e, pertanto a far predisporre l’enorme barriera di reti che avrebbe condotto gli ignari e voluminosi animali verso la camera della morte. Era sempre lui ad incitare, a coinvolgere i suoi tonnaroti nella mattanza e a farli pregare sia nei momenti di pericolo sia per ringraziare Gesù, gli angeli e i santi nei casi in cui la pesca fosse stata abbondante e fruttuosa.

    Queste notizie mi venivano riferite dai marinai, i tonnaroti, che rientravano a pieno titolo nel mio immaginario adolescenziale come dei personaggi di fiaba, e che nel tardo pomeriggio, mentre erano seduti sulle alghe del porto ad osservare silenziosi le condizioni del cielo e del mare, o a riparare le reti, venivano importunati da me che non ero mai sazia di conoscere “i racconti della mattanza”.

    Col senno di poi mi rendo conto che sicuramente erano contenti di trovarsi questa ragazzina tra i piedi, che li stimolava a riesumare quelle avventure pericolose e affascinanti che sempre connotano il vissuto di un uomo di mare.

    Ricordo alcuni dei loro cognomi, quali Calamusa, Caleca, ma anche il loro portamento fiero ed altero. Erano quasi tutti magri, asciutti, scalzi, a dorso nudo, con i muscoli scolpiti, con i pantaloni rivoltati fin sotto il ginocchio, con il viso solcato dalla fatica e corroso dalla lunga esposizione al sole e alla salsedine marina. Parlavano con riverenza della famiglia Amodeo, con venerazione del RAIS, loro capo e condottiero durante la mattanza, ma anche, sempre e comunque, esempio e maestro di vita.

    Verso i 10 anni di età cominciai ad esprimere in famiglia il desiderio di assistere alla mattanza e chiesi il permesso di partire, ancor prima dell’alba, con i miei amici marinai. Non solo la mia richiesta non fu esaudita, ma, vista la pericolosità dell’impresa, fui sgridata per aver osato chiedere l’impossibile. Finito il terzo anno di quello che allora era chiamato ginnasio, quindi all’età di 13 anni circa, fui accontentata.

    Fu il mio nonno materno, Giovanni Obbiso, ad intercedere per me presso i miei genitori e ad assumersi in pieno la responsabilità di quella che io ritenevo un’avventura. Affittò una barca a motore e, a mattino già inoltrato, mi condusse presso le acque di Tre Fontane, laddove avveniva la mattanza. Mi trovai di fronte a uno spettacolo atroce… terrificante: i tonni erano stati spinti nella camera della morte e si dibattevano paurosamente per non morire.

    Venivano colpiti con i bastoni, soprattutto con le fiocine e le lance che provocavano ferite profonde con lo scopo di far dissanguare i malcapitati pesci. Il tratto di mare era diventato rosso-violaceo e le onde, causate dai colpi di coda degli animali agonizzanti, facevano oscillare freneticamente i barconi da pesca, ma anche quella dove, sia pure a debita distanza, mi trovavo io.

    Il RAIS urlava ordini in maniera ritmica e cadenzata e i marinai rispondevano con un’uguale intonazione. Non conoscevo quel linguaggio, sicuramente frammisto a parole arabe, né il senso e il significato di ciò che veniva detto, però il tutto era sincronizzato e finalizzato alla violenza da esercitare nei confronti di quei poveri tonni indifesi e alla loro cattura. Durante la mattanza venivano anche invocati i santi e soprattutto San Vito, a cui i tonnaroti erano profondamente devoti. Mi trovai di fronte ad un rituale che aveva strani aspetti e che ancora oggi, molto lontano nel tempo, non so se definire “sacro o profano”, ma che sicuramente era di derivazione pagana.

    Un po’ perché la barca oscillava paurosamente, ma soprattutto per la crudeltà con la quale i tonni venivano portati alla morte, mi sentii male e chiesi al nonno di riportarmi a casa. Per un po’ di giorni rimasi lontana dai marinai e dalle loro storie e, per quanto provassi ad intrattenermi più a lungo possibile con i miei coetanei, finii col provare interesse per lo sbarco dei tonni, che avveniva nello specchio di mare sottostante gli stabilimenti della lavorazione del pescato. Anche questo era uno spettacolo singolare perché i tonnaroti di terra, sempre diretti dal RAIS, servendosi di carrucole e grosse funi, dovevano tirare e sollevare con la forza delle sole braccia i tonni arpionati con grossi ganci, fino a coprire il dislivello di alcuni metri esistente tra il mare e gli stabilimenti stessi.

    Anche in questa occasione si assisteva ad un rituale fatto di grida, esortazioni, canti e preghiere, che avveniva di solito in presenza di alcuni visitatori. Il personale degli stabilimenti era costituito soprattutto di donne, cioè mogli, sorelle o comunque parenti dei tonnaroti o dei pescatori della zona; erano quasi sempre vestite di nero, a testimoniare uno stato di lutto che poteva durare a lungo, anche per diversi anni o per sempre quando si trattava di quelle che erano definite le “vedove del mare” perché il marito era morto durante la pesca o comunque per motivi di lavoro.

    Spesso si riunivano a gruppi sugli scogli del piccolo golfo e aspettavano il rientro dei barconi che tornavano dalla mattanza e, già a distanza, sapevano se la pesca era stata più o meno abbondante dal numero delle bandierine (una ogni 10 tonni) che sventolavano sul pennone più alto della barca ammiraglia. A volte gioivano, altre volte esprimevano disappunto perché il salario era relativo alla percentuale dei tonni pescati, ma sempre lodavano Dio per il ritorno di propri cari.

    Le donne dei tonnaroti svolgevano un ruolo importante nella società marinara del tempo, quando Torretta, a partire dal mese di maggio, registrava la presenza di più di mille persone. Molte di esse lavoravano nei locali degli stabilimenti dove avveniva la lavorazione dei tonni, cioè la suddivisione in tranci, la pulitura, la sterilizzazione e la conservazione sott’olio.

    Venivano dirette, per l’espletamento di queste operazioni, da una sovrastante, chiamata da tutti “la caporala” e quello fu sicuramente il primo passo per l’emancipazione delle donne del nostro territorio. A testimoniare lo splendore e l’operosità della vecchia tonnara esiste ancora un anziano pescatore, il signor Salvatore Calamusa, residente tuttora nel piccolo borgo; è quasi cieco, ma tutte le mattine si reca presso l’insenatura del porto per fiutare il mare, per avvertirne gli umori.

    Di tanto in tanto vado a trovarlo per emozionarci insieme… ed allora i suoi occhi spenti s’illuminano e poi si velano di rimpianto.

    *** Oggi la tonnara di Torretta è diventata un’importante sede del Centro Nazionale di Ricerca, dove vengono svolte utilissime attività rivolte al benessere delle acque della costa e delle colonie sottomarine della flora e della fauna che vi stazionano, per preservarle da tutto ciò che può minacciarne o distruggerne il delicato ecosistema.

    Ma consentitemi, almeno per un istante, vorrei ritornare indietro nel tempo e, con un colpo di bacchetta magica, far rivivere ed animare quei luoghi, da me tanto amati, per sentire riecheggiare fra le onde, ancora una volta, i ritmi e i canti cadenzati di allora, rimasti impressi nella memoria e marchiati nel cuore per sempre.

    La maestra Anna Bono

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