Nel ricordo di "Cumpari Tanu" e della Selinunte dei vecchi tempi
di: Vito Marino - del 2020-05-30
Spolverando i miei lontani ricordi degli anni ’45 – ’50, rivedo Marinella come un piccolo borgo di pescatori. I templi di Selinunte erano ancora abbandonati a se stessi, senza recinzione, guida e custode; i turisti occasionali di allora, prevalentemente francesi, erano guardati e seguiti da noi ragazzi come delle bestie rare.
Castelvetrano ancora riparava i danni e piangeva i morti causati dalla II Guerra Mondiale e dalla lunga dittatura. A Marinella mancava l’acqua corrente nelle abitazioni e a “li cannola”, le quattro fontanelle pubbliche esistenti, c’era sempre una calca di persone per l’approvvigionamento dell’acqua potabile, con bisticci fra le donnette e la conseguente rottura di qualche “quartara” (brocca) e relativa tirata di capelli.
L’illuminazione delle strade era garantita ancora da pochissimi fanali ad acetilene; ricordo ancora di un addetto comunale, che ogni sera controllava i fanali del loro contenuto d’acqua e carburo di calcio, e li accendeva (la reazione dell’acqua che cadeva a goccia sul carburo di calcio (CaC2) produceva il gas acetilene C2H2).
Le case di villeggiatura erano composte, spesso da un locale unico. Il proprietario, con un filo e una tenda, divideva il reparto degli uomini da quello delle donne. Non c’era ancora la TV e per vedere un cinema bisognava andare a Castelvetrano.
Questo era il quadro desolante di Marinella di Selinunte di quel periodo storico.
Tuttavia, si respirava un’aria giocosa di festa, sembrava che tutti volessero scrollarsi di dosso il terrore della guerra e la miseria che ci aveva lasciato; per cui chi aveva la possibilità di villeggiare, anche in quelle condizioni, era considerato fortunato ed invidiato da tutti.
Gli svaghi e i divertimenti di allora consistevano principalmente nel farsi i bagni al mare e, di sera, a “Calanninu”, all’incerto chiarore lunare o del fanale a petrolio “di li cammareddi di Nittu Scorcia” (la stazione balneare di Benedetto Atria), cenare sulla spiaggia; seguivano i giochi di società.
La villeggiatura al mare rappresentava anche una buona occasione per i giovani di fare amicizie con ragazze coetanee, per futuri probabili fidanzamenti. Allora non era concepibile una semplice amicizia fra i due sessi, esisteva soltanto il fidanzamento, seguito generalmente dal matrimonio. Certe famiglie, che avevano un locale ampio, o uno spazio libero all’aperto, si divertivano a ballare al chiarore dei lumi e delle candele; nel silenzio della notte i suoni della fisarmonica e di qualche altro strumento musicale diffondevano nell’aria le dolci armonie.
Tutta questa atmosfera di festa succedeva soltanto nei mesi di: luglio e agosto, per il resto dell’anno il villaggio restava quasi abbandonato. Anche i marinai, provenienti da altre parti della Sicilia, venuti per la pesca delle sardine, rientravano nei loro paesi. Restavano i pochissimi marinai del posto, accentrati attorno allo Scalo di Bruca.
Durante questo lungo periodo essi si abbrutivano per il poco contatto con altre persone e, per superare la noia e l’ozio, si prodigavano qualche generosa bevuta nell’unico bar di Vaiana, che fungeva anche da supermercato e da taverna. I ragazzi, in particolare, sembravano dei piccoli selvaggi che consideravano i villeggianti estivi come degli intrusi del loro regno.
Come tali, si vendicavano con atti vandalici nei confronti dei loro coetanei. Così, nella bella stagione, quando il mare era calmo ed il cielo senza luna, partivano “li scarioti” (i marinai dello scalo) con le barche provviste di lampare a petrolio, per la pesca delle sardine.
Allora, la pesca era più pericolosa: le previsioni del tempo ancora non esistevano o non erano ascoltate ed i marinai si fidavano soltanto della loro lunga esperienza; lo scirocco o il maestrale poteva spuntare da un momento all’altro, con gravi rischi.
Tuttavia le barche erano numerose e di notte la linea dell’orizzonte era cosparsa di puntini luminosi. Se la pesca di sardine era stata generosa, l’indomani mattina, ancora al buio, si sentiva suonare “la brogna” (la baucina) una grossa conchiglia, che al soffio produce un suono strumentale di basso. S
i usa anche come avviso marinaresco; in questo caso serviva per invitare gli interessati a recarsi allo “scaro” per gli acquisti. La vendita all’incanto della pesca avveniva all’aperto in un punto determinato vicino la spiaggia. La maggior parte delle sardine finiva negli appositi magazzini dislocati attorno allo scalo, dove avveniva la salatura e la stagionatura in grossi “valliri” di legno da kg. 25.
I privati pensavano ad arrostire immediatamente le gustose sardine, il cui profumo d’arrosto si diffondeva da tutte le parti. Allora si diceva che “la morti di la sarda è arrustuta”.
Fra questi marinai c’era “cumpari Tanu”, “scariotu” di Marinella, una persona molto brava, ma dall’aspetto di un selvatico. Tutti lo conoscevano ed erano conosciuti da lui, compreso qualche centinaio di vacanzieri, che nel periodo estivo andavano lì a villeggiare.
Una volta in Sicilia il comparatico era molto sentito come un vincolo di quasi parentela; anzi, nella vita corrente e nella letteratura, le persone amiche si chiamavano spesso “cumpari e cummari” senza che ci fosse fra loro nessun vincolo di comparatico, così avvenne per il nostro personaggio.
Lo vedevo camminare sempre a piedi scalzi con i pantaloni risvoltati fino ad i polpacci delle gambe, secondo la rigida tradizione marinaresca di allora. Anche se le strade non erano asfaltate, sembrava che lui camminasse su un materasso di piume. Portava sempre la barba incolta e la sua pelle era incartapecorita, per il sole e la salsedine, cui era stata esposta per tutta la sua vita.
Ormai era vecchio per andare a pesca, ma non stava in ozio e aiutava gli altri marinai a caricare e scaricare le barche, a rammendare le reti e alla riparazione delle scialuppe. Un giorno, durante una detta riparazione, la pece messa a bollire in un recipiente, si riversò accidentalmente sulla sua gamba.
Allora finiva all’ospedale soltanto chi era in pericolo di morte, per cui il nostro personaggio si è visto camminare con fatica per più di un mese con delle grosse bolle provocate dalla scottatura. Un’altra volta stava malissimo, la notizia si sparse e chi lo conosceva era preoccupato; già la guardia comunale Pusateri, incaricata dal comune di Castelvetrano per provvedere alle necessità della popolazione, era stata avvisata di chiamare un mezzo per portarlo all’ospedale.
Per fortuna la situazione si è risolta e così tornò a girare per il paese. Si è saputo in seguito che si era ridotto in quelle condizioni per aver mangiato a colazione il contenuto di un grosso paniere di fichi d’india “austini”, chiamati allora “attuppaculu”.