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Dai "sensali" ai trappetari". Quando il Sistema delle Piazze era il "motore" commerciale di CVetrano

di: Vito Marino - del 2017-09-23

Immagine articolo: Dai "sensali" ai trappetari". Quando il Sistema delle Piazze era il "motore" commerciale di CVetrano

Durante il Medioevo e fino al 1950 – 60, anni che partorirono la moderna civiltà tecnologica industriale, vigeva la civiltà contadina, un sistema di vita arcaica durato millenni, governato da leggi rigide che rispettavano quelle dettate dalla natura. In quegli anni passati il Sistema delle Piazze di Castelvetrano, sulle quali si affacciava il Palazzo Ducale, oggi Palazzo Comunale, era il centro pulsante di tutto il paese ed era suddiviso nelle seguenti piazze:

- L’attuale Piazza Umberto I si chiamava Piazza della Ninfa o Piano dei Commestibili e della Foglia. Qui per Carnevale si svolgeva la gara del toro.

- La piazza attuale Carlo d’Aragona, già Piazza Garibaldi una volta era suddivisa in Via delle Botteghelle (dall’altezza della chiesa di San Giacomo o Batiella di Via Garibaldi, fino al teatro Selinus e alla Via Pappalardo) e Piano del castello o di San Pietro, la rimanente parte di Piazza che serviva per le manifestazioni pubbliche.

- La piazza Principe di Piemonte si chiamava Piazza principe di Napoli e ancora prima si chiamava Piazza Vecchia.

La foto in esame, che riprende una porta collegata con una finestra, murate, appartiene al Palazzo Comunale di Castelvetrano, dalla parte di Piazza Umberto I e rappresenta la porta d’ingresso di una vecchia bottega medievale.  

Ricordo benissimo che quando ero ragazzo, intorno al 1946 – 47 in quella stanza c’era un ufficio comunale:  La porta permetteva l’ingresso delle persone, mentre dalla finestra si apriva uno sportello per il pubblico, che doveva aspettare fuori, nella piazza.   

Non dobbiamo meravigliarci troppo se il pubblico doveva aspettare all’aperto, esposto alle intemperie, ma in quegli anni il cittadino, malgrado la scomparsa del feudalesimo, era ancora considerato “servo della gleba” alla maniera medievale.

Allora il pubblico faceva ressa dietro i pubblici sportelli  spingendo e bisticciando per guadagnarsi i primi posti, mentre gli impiegati gridavano e rispondevano male senza dare alcuna spiegazione alle proteste o alle richieste di chiarimenti.

Purtroppo, certe reminiscenze medievali fanno comodo a chi comanda; ha fatto comodo alla dittatura fascista ma fa ancora più comodo a chi comanda in piena democrazia. Ancora oggi, non esiste l’equità fra Stato e cittadino, che è alla base di tutte le democrazie.

Per l’intera durata del Medioevo e   fino   alla   Rivoluzione   industriale, l'agricoltura  rimane  alla base  di  tutta  l'economia  europea.  

Tuttavia, dal X–XI   secolo, progressivamente, crescono   e   si  espandono   le   attività manifatturiere  e  commerciali,  in  stretta  connessione  con  la nascita  o  la rinascita delle città e la suddivisione delle attività fra campagna e città.

In particolare, prima  degli anni  Mille prevale  in Europa  un'attività  artigiana limitata  all'essenziale, non  separata  da  quella  agricola, aggiuntiva  a  quella del  contadino  e saltuaria,  svolta  da  coloro  che, nelle aziende signorili o monastiche  delle campagne,  eseguivano  lavori  artigianali di vario tipo per uso domestico e per  le corti   di   signori e grandi proprietari.  

Dopo gli anni  Mille la produzione manifatturiera si scioglie dal vincolo con l’agricoltura e sorgono all’interno delle città e nei borghi, un'altissima quantità  di  artigiani suddivisi nei vari settori produttivi. Nascono così i mestieri.

La bottega medievale era un piccolo esercizio, generalmente affacciato sulla pubblica via, dove il proprietario esercitava l’attività artigianale e, contemporaneamente effettuava la vendita dei suoi prodotti. L’artigiano aveva rapporti direttamente con il cliente nella sua stessa bottega, senza bisogno di un intermediario venditore.

A partire dal XIX secolo, la crescente produzione di prodotti industriali e la loro commercializzazione causò la graduale suddivisione delle botteghe in esercizi a prevalente attività artigianale ed esercizi ad attività commerciali. Per questo motivo, ad esempio, sia un negozio di salumeria che un laboratorio di falegnameria vengono comunemente definiti botteghe.

Le botteghe medievali, con i loro sistemi di lavorazione e vendita sono rimaste inalterate, salvo piccole modifiche,  fino al 1950, per come le ricordo io quando ero ragazzo.

Oggi il termine bottega è rimasto in uso soltanto per indicare il luogo di lavoro di un artista e dei suoi eventuali apprendisti; gli ultimi artigiani, come i sarti e i calzolai sono ormai scomparsi anche loro, salvo qualche rara eccezione, mentre i fornai nelle grandi città stanno per essere soppiantati dalla grande industria. Tuttavia esistono ancora attività artigianali che non producono un prodotto finito derivato dalla trasformazione di una materia prima, ma si limitano soltanto alla riparazione, come il meccanico, il falegname e il fabbro ferraio.

Restano ancora  le botteghe che esercitano soltanto la vendita di prodotti finiti; ma anche queste sono destinate a scomparire, poiché i mercatini rionali e occasionali, i supermercati e le città mercato stanno fagocitando le poche botteghe rimaste.   

La porta finestra della foto in esame faceva parte, in un lontano passato, di una bottega, sicuramente di generi alimentari e,  possibilmente di verdura, visto che la piazza era denominata Piano dei Commestibili e della Foglia. Un’antica stampa medievale ritrae una porta simile, e dal vano finestra risulta esposta la merce da vendere.   

Durante il Medioevo a causa  delle difficoltà nei trasporti e nelle comunicazioni, in ogni paese i numerosi e abili artigiani erano nelle condizioni di produrre gli attrezzi e oggetti vari necessari alla vita di allora.

Gianni Diecidue ci riferisce nel suo libro ”Seicento Castelvetranese”, che: <<nel 1732 a Castelvetrano operavano 800 maestri compresi gli “aromatari o speziali” (farmacisti di allora), i notai, i musici, i pittori>>.

Volendo dare un’idea dei vari artigiani maestri che operavano allora a Castelvetrano, ne cito i principali: <<cordari, bottai, carpentieri, bardonari, sarti, muratori, pozzari (che scavavano pozzi), sellai, fabbri, consarioti (conciapelle), calderai, trappetari (oleifici), rappezzatori per i vestiti dei poveri contadini, bottega del vino, mercerie, cubaitari, sensali, polverai (fuochi d’artificio), lavandaie, sarte, lavoratrici di foglie di palma nana, tessitrici (con telai tessevano terzanelli, rasetti, stoffe di seta)>>.

Nella bottega dell’artigiano, oltre al maestro ci potevano essere uno o più lavoranti e altrettanti garzoni.

I lavoranti lavoravano nella bottega assieme al maestro e raggiungevano tale qualifica dopo aver superato il lungo apprendistato di garzone. Vi restavano fino a quando erano nelle condizioni di prestare la loro opera; ma se riuscivano a trovare il capitale per mettere su bottega, diventavano maestri.

I garzoni, ragazzi dai 10 ai 12 anni, che oggi vengono chiamati apprendisti e negli anni ’50 del secolo scorso erano chiamati “picciotti”, effettuavano i lavori umili nella bottega, ma anche in casa del maestro. Gianni Diecidue, in merito aggiunge:

<<Le prestazioni del garzone erano gratuite o meglio, ripagate dall’apprendimento dell’arte, che avveniva a suon di bastonate dal maestro severo considerato come padre, ed i padri allora erano severissimi con i figli. Nei capitoli dei contratti di assunzione stipulati tra i genitori e il maestro erano contemplati gli obblighi del garzone delle prestazioni da dare, di non allontanarsi senza il permesso del padrone e di non fuggire>>.

Il padrone forniva vitto e alloggio al ragazzo, che purtroppo doveva effettuare lavori anche pesanti, senza orari, con scarso nutrimento e pessimo vestiario.    

Fra le varie innumerevoli botteghe che c’erano fino al 1950 qui di seguito ne cito soltanto qualcuna:

IL MACELLAIO comprava un animale, lo macellava possibilmente davanti la sua stessa bottega, lo squartava, lo selezionava, appendeva le parti più grosse davanti la sua bottega per farli asciugare e le vendeva.

I LAVORATORI DEL LEGNO (falegnami, ebanisti, carradori, tornitori, seggiolai, bottai) sono stati sempre numerosi a Castelvetrano; la presenza nel passato e fino agli inizi del 1900 di boschi, dai quali ricavare la materia prima: il legno, facilitava lo sviluppo di questi mestieri.

Il Ferrigno ci ricorda che essi <<si erano riuniti in confraternita, sotto il patrocinio e titolo di San Giuseppe, sin da tempo remoto, con atto poi, ricevuto da notar Pietro Catanzaro del 25 marzo 1624, tradussero in forma pubblica i loro capitoli, già stabiliti vivente il principe di Castelvetrano, don Giovanni d’Aragona. Le disposizioni statutarie dovevano eseguirsi da tutti gli iscritti sotto pene severe non esclusa quella di non potere più esercitare l’arte.

L’immagine del  santo protettore, col Bambino Gesù, buona scultura in legno del secolo XVII (prima metà) fu donata alla confraternita da donna Stefania Mendoza e Cortes, sposa di don Diego d’Aragona, duchessa di Terranova e principessa di Castelvetrano, devotissima del santo, come rilevasi dall’atto del 16 marzo 1627 ricevuto da notar Vito Mangiapane>>.    

Il falegname o mastro d’ascia dei vecchi tempi, era il più importante.

Egli nella sua “putia” (bottega), con pochissimi attrezzi manuali ma con moltissima perizia, trasformava la materia prima, come “tavole e tavoloni” (assi di legno) in prodotti finiti, come infissi, mobili, casse funebri, "pile” (lavatoi), marchingegni per filare la lana o il cotone, telai per tessere la tela, pompe manuali per l'irrigazione dei campi, ma anche oggetti rustici, come l’aratro e il manico di zappa. e tutti quei lavori imprevisti dove la materia prima era sempre il legno; inoltre restaurava mobili ed infissi.

Alle origini questo artigiano iniziava la sua prestazione nella personale ricerca della materia prima. Nei mesi invernali egli partiva  per i boschi, abbatteva l’albero che gli serviva, lo tagliava a misura a lui più conveniente e, a dorso di muli portava il tutto alla sua bottega.

Qui con l’ascia (da qui il suo nome) toglieva la corteccia e squadrava i tronchi, quindi con il “sirruni” (una lunga serra manuale) tagliava il tronco per il lungo a fette, ottenendo le tavole. Un proverbio dice “Li ferri fannu lu mastru” ed infatti è vero fino al un certo punto, perché sta nell’abilità del mastru a sapere usare i ferri.

LA PUTIA DI LU VINU (la bottega del vino, oggi chiamata enoteca) nel lontano passato assumeva una grande importanza; non si trattava della classica taverna degli anni ’50 del secolo scorso, ma  assumeva un ruolo più importante, era un luogo di ristoro e di incontro per artigiani e contadini, dopo il duro lavoro della giornata. Gli avventori si riunivano in queste botteghe per socializzare, chiacchierare, bere e, talvolta, per  prendere qualche boccone. Il consumo del vino era un mezzo per stare insieme con gli amici e svagarsi. In pratica sostituiva il bar e i circoli ricreativi, la televisione e il cinema dei tempi più moderni.

Talvolta in questi locali si trattavano persino certi affari, come atti di compravendita, assunzioni, compromessi. Purtroppo, c'erano anche quelli che andavano nella “putia” solamente per ubriacarsi, talvolta per annegare nell’alcool paure e dispiaceri, provocati dal disagio sociale.

Capitava così, che in questi locali accadevano liti, risse, fatti di cronaca anche efferati. I gestori, per un maggior guadagno, e per stimolare la sete di vino cucinavano ceci o fave lesse, o mettevano in tavola “lu scacciu”: noci e mandorle. Altre pietanze potevano essere: trippa, mussi e carcagnola lessi, purpu a stricasali, olive nere, ceci abbrustoliti, pane, sardine salate, formaggio, e altri cibi che stavano bene con il vino.

Si giocava a carte, ma si praticava anche “lu tuccu”, un particolare gioco delle parti, basato su un particolare cerimoniale: si tratta di uno svago di antica tradizione popolare fra gli uomini adulti, nato nelle osterie della Roma avanti Cristo e poi diffusosi nelle zone dell’Italia meridionale e ancora praticato: i partecipanti sorteggiano un “sutta-patruni” e un “patruni”, ai quali spetta il compito di amministrare, attraverso norme molto rigide, un intricato scambio di bevute con lo scopo di fare ubriacare uno di loro e lasciare un malcapitato senza vino, per umiliarlo e ridere alle sue spalle; chi restava escluso dal gioco era costretto a non bere e a pagare lo stesso.

CAMPANIDDARU – RAMATURI – QUARARARU – STAGNATARU (Campanari – lavoratori del rame, calderai, stagnino). Il “campaniddaru” era il campanaro, un bravo fonditore, che fondendo con particolari accorgimenti dettati dalla sua esperienza (78 parti di rame e 22 di stagno), otteneva le campane.

Il “ramaturi” era anche lui un fonditore che costruiva oggetti in bronzo, ottone e rame. Il “quarararu” era un costruttore di “quarara” caldaie e pentole di rame stagnato all’interno. Lo “stagnataru” era lo stagnino, costruttore di oggetti di latta e lamiera per usi domestici e vari. Mestieri oggi tutti scomparsi a livello artigianale.

CUNZARIOTI (conciaspelle) Le vecchie carte topografiche siciliane riportano l’esistenza di non poche concerie che operarono una volta nel territorio di Castelvetrano; ma anche le antiche denominazioni medievali di strade, come Via delle Concerie, sta ad indicare tale esistenza. Nella contrada “Cuddemi” facente parte dell’ex feudo “Strasatto”, vicino l’abitato di Castelvetrano si trova la Via delle Concerie.

La conceria più antica e più grande risale al 1583, per come risulta da atto notar Giovanni Purpugnano del 23/11/1583, riportato dal Ferrigno: <<conciaria magna ditta di lo gurgo in territorio ditte civitatis (Castelvetrani) et in contrada di Coddemi secus conciariam que olim erat quondam magnifici Petri Murriuni et alios confines”>>; così continua il Ferrigno: <<Sin dopo la metà del secolo scorso esistevano le tre concerie denominate di Atria, Vivona e Romano>>. Nel libro “Castelvetrano e gli Ebrei nel Sec. XV” di P. Calamia, M. La Barbera e G. Salluzzo si legge: <<Sappiamo che le attività legate alla produzione della seta e alla concia delle pelli in Sicilia erano gestite quasi esclusivamente dalle comunità ebraiche>>.  

TESSITORI DELLA SETA. Nella lavorazione della seta gli Ebrei si erano specializzati dalle varie fasi dalla coltivazione del gelso, alla lavorazione, tintura e al commercio del prodotto. Sappiamo che Ruggero II concesse loro molti privilegi fra cui il monopolio della lavorazione della seta che aveva sede addirittura nello stesso Palazzo reale. E fu in quest' opificio che venne tessuto e ricamato il celebre mantello di re Ruggero, adesso visibile presso il museo di Vienna.

Nella lavorazione e tessitura della seta, spesso erano impegnate le donne. Sui telai e lavorazione di tessuti, il ferrigno cita il seguente documento, che porta la data del 5/5/1632: <<E’ un ordine della signora Stefania Cortes Aragona e Mendoza, duchessa di Terranova e principessa di Castelvetrano, procuratrice del proprio marito duca don Diego, ai giurati di Castelvetrano di mutuare a maestro Giacomo Magro onze 30, per anni tre per fare il filatoio e i telai per tessere terzanelli, rasetti, ecc.[…]>>.

Al momento dell'espulsione dalla Sicilia (1488) gli Ebrei porteranno con loro quest'importante attività, che perderà  la grandezza che aveva raggiunto.

MAESTRANZE E CORPORAZIONI NEL MEDIOEVO. Nel medioevo ebbero una grande importanza  le maestranze e corporazioni artigiane, con statuti  riconosciuti  dalle autorità esistenti allora: sovrano,  Comune,  signore. Essi avevano come fine la protezione e l’assistenza dei soci e ne regolavano l’attività; così che, solo gli iscritti e nei modi di volta in volta stabiliti, potevano produrre o vendere una data merce. In particolare la corporazione provvedeva alla tutela della qualità dei manufatti; i regolamenti interni imponevano un rigido controllo sull’uso delle materie prime, degli strumenti di lavoro, delle tecniche di lavorazione.

A capo stava un console nominato dai collegi degli iscritti. A capo dei consoli stava a Palermo un pretore. Tutte le maestranze avevano un patrono dell’arte di appartenenza e un santo venerato con speciale devozione.

Le botteghe artigiane erano per lo più riunite per la medesima arte, nella stessa via o contrada ed ereditate da padre in figlio; anche maestri e garzoni vivevano nella stessa via e formavano come una famiglia.. In proposito Gianni Diecidue nel suo libro: “Seicento castelvetranese” nell’argomento delle maestranze, così scrive: <<Nei capitoli (regolamenti) era previsto che nessuno potesse aprire bottega senza averne ottenuto licenza, che si rilasciava dietro un esame di abilità ed il pagamento di tarì 15>>.

I componenti della  maestranza, dagli anni 18 ai 60 erano obbligati al servizio militare per comporre la milizia urbana, che serviva per la guerra e per le parate nelle feste o ricevimenti di personaggi importanti, con spari a salve.

Ogni mese si esercitavano al tiro a bersaglio. In merito, il Ferrigno in: “Arti popolari a Castelvetrano” ci ricorda dei particolari: <<Una lettera del viceré duca di Albuquerque e del Real Patrimonio, data a Palermo a’ 25 agosto 1631, richiama all’osservanza del capitolo 36 delle istruzioni della milizia, ordina che ogni prima domenica di mese si trovino in ordine i soldati archibugieri per esercitarsi a tirare alla mira e che si dia il premio al soldato che farà il miglior colpo>>.  

A Castelvetrano esistevano quattro compagnie, una per ogni quartiere (S. Giovanni, S. Antonio, S. Nicolò, S. Giacomo), ciascuna sotto il comando di un capitano e sotto un vessillo, con colori propri per ogni quartiere, portato da un alfiere.

La cavalleria aveva un suo portastendardo.

Fino al 1784 Castelvetrano, come principato, con una popolazione di 15.000 abitanti, aveva 35 uomini a cavallo e 86 a piedi, come esercito di prima linea in caso di guerra.

In quella stessa data, il viceré Caracciolo emanò nuovi capitoli (regolamenti) a carattere restrittivo. Le maestranze, a poco a poco si ridussero  a semplici corporazioni.

Certe maestranze, dal carattere turbolento vivevano nell’illegalità, protette anche dalle strade di allora strette e tortuose, con sotterranei e cunicoli che ne facevano un sicuro rifugio; per questo motivo in Sicilia, dopo i moti del 1820, furono soppresse. Molte di esse si trasformarono in confraternite, ma erano in effetti delle associazioni camorristiche e mafiose.          

CONFRATERNITE, compagnie e congregazioni operavano in seno alla Chiesa in qualità di laici al fine di diffondere il culto dei santi, moderare i costumi, praticare l’esercizio della carità e perfezionare la vita cristiana.   

In certi casi, preesistenti confraternite di carattere devozionale, si trasformavano in corporazioni.

Il Canonico Vivona, scrive che a Castelvetrano alla fine del ‘700 c’erano 17 confraternite, 3 compagnie e 7 congregazioni, fondate fra il ‘500 e il ‘600. I nobili della Compagnia dei Bianchi e della Confraternita di San Giacomo si raccoglievano in questi organismi associativi. Le confraternite che più si distinsero furono quella di San Giuseppe dei falegnami e bottai, di San Crispino dei calzolai, dei quattro santi coronati dei muratori e di Sant’Eligio dei bordonari. La borghesia si consociava nelle confraternite del SS. Rosario e di Nostra Signora dell’Itria.

Una confraternita era retta da un governatore e da due assistenti eletti fra i confrati.

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