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"Pupa du zuccaro" e frutta marturana. Tra storia e gastronamia la tradizione dei Morti si ripete

di: Vito Marino - del 2016-10-31

Immagine articolo: "Pupa du zuccaro" e frutta marturana. Tra storia e  gastronamia la tradizione dei Morti si ripete

Il due novembre tutto il mondo cristiano celebra la commemorazione dei defunti; in Sicilia, fino ad un recente passato, per i più piccoli era “la festa di li morti”.  

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  • Per non fare perdere ai bambini la memoria dei cari defunti, fino a qualche decennio fa, in quella ricorrenza, c’era la tradizione di portare dei doni e far credere, nella loro dolce innocenza, che a fare ciò erano “li murticeddi”.  

    Per spiegare questo fenomeno, per loro soprannaturale, si sosteneva che i defunti, usciti dalle tombe, andassero a comprare dolciumi e oggetti vari e poi li portassero come regalo ai bambini più buoni.

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  • La delusione era forte, quando a scuola i ragazzi più grandi se ne ridevano della loro convinzione. L'origine ed il significato di questa usanza si collega certamente ad antichi culti pagani ed al banchetto funebre un tempo comune a tutti i popoli indo-europei, di cui si ha ancora un ricordo nel “cunsulu” siciliano. I bambini più poveri potevano trovare nel cestino “calia e favi caliati, pastigghia” (fave e ceci tostati, castagne secche), “ficu sicchi, ranati, cutugna” (fichi secchi, melograni, cotogne), “nuci, nuciddi, nuciddi americani (arachidi)”.

    Non c’è da meravigliarsi dei regali così miserevoli per i giorni nostri; ma la frutta allora era considerata un bene voluttuario poco consumato dai più poveri. Inoltre: “Bombolona” (le caramelle artigianali di una volta), “tetù, muscardina (per chi aveva buona dentatura), mustazzola, quaresimali, viscotti picanti” (tutti biscotti artigianali). I meno poveri ricevevano “li cosi di morti”, come: confetti, caramelle, cioccolatini, finte sigarette e soldoni di carta dorata o argentata ripieni di cioccolata; fra questi, i più caratteristici erano: la frutta di “marturana, li pupa di zuccaru e li muscardina”.  

    La “marturana” è un tipico dolce siciliano, più precisamente di origine palermitana, famoso nel mondo, simile al marzapane ma notevolmente più dolce e saporito, a base esclusivamente di farina di mandorle e zucchero e confezionato in forma di frutta.

    Deve il suo nome alla Chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio o della Martorana, eretta nel 1143 da Giorgio d'Antiochia, ammiraglio del re Normanno Ruggero II, nei pressi del vicino monastero benedettino, fondato dalla nobildonna Eloisa Martorana nel 1194, da cui prese il nome, e di quello di Santa Caterina nel centro storico di Palermo, dove le suore lo preparavano e lo vendevano fino a metà del 1900.  

    “La marturana”, così dolce e apprezzata, secondo la tradizione ebbe origine alla fine del 1812, con la venuta a Palermo di Maria Carolina d’Austria, Regina delle Due Sicilie, che andò a far visita alle monache del monastero della chiesa della Martorana; queste le offrirono dei dolci fatti di pasta di mandorla e zucchero, così simili alla frutta naturale, da fare rimanere stupefatta la sovrana.

    Secondo un’altra versione la frutta di Martorana è nata perché le suore del convento della Martorana, per sostituire i frutti già raccolti nel loro giardino, ne crearono di nuovi con mandorla e zucchero, per abbellire il convento per la visita del Papa dell'epoca.

    “Li pupa di zuccaru”, reminiscenze della dominazione araba in Sicilia, erano statuette antropomorfe di zucchero, decorate con colori sgargianti e vivaci dei carretti siciliani. vuote di dentro, con la forma di ballerina, bersagliere, soldato a cavallo con il fiocco colorato, tamburino. Gli arabi allora ricavavano lo zucchero da una speciale canna da zucchero chiamata “cannam mellis” (cannameli). “Li muscardina” o “ossa di morti” sono dei biscotti di consistenza molto secca e di colore bianco e marrone. Sono preparati con zucchero, farina, albume e acqua di chiodi di garofano, vengono chiamati anche " Paste di Garofano".

    I bambini benestanti il due novembre trovavano anche vestitini, scarpette, camiciole, giocattoli. Il tutto era sistemato su una “nguantera” ben nascosta, per stimolare un loro maggiore interesse al risveglio.  Così “lu iornu di li morti” i bambini andavano contenti con i genitori a fare visita ai cari defunti per ringraziarli dei doni ricevuti.

    Nella stessa ricorrenza era consuetudine, da parte “di lu zitu”, di portare a “la zita” un cesto con “lu pupu di zuccaru”, che rappresentava una coppia di fidanzati; inoltre, per il primo anno di fidanzamento, il fidanzato doveva regalare alla fidanzata un ombrello, più altri regali di maggior valore.

    Oggi questa consuetudine è quasi scomparsa, poiché i regali arrivano in ogni occasione, tutto l’anno. Volendo riportare un po’ di storia sul cimitero comunale di Castelvetrano, esso fu costruito in rispetto della legge 11 marzo 1814, nel 1840 (dopo 26 anni).

    Il Ferrigno ebbe a scrivere in quella occasione: “La scienza non poteva più tollerare che il putridume dei cadaveri, lasciati nei vortici dei carnai, ammorbasse l’aria”.  Infatti, fino a quella data, i cadaveri dei ricchi erano sepolti nelle chiese, mentre quelli dei poveri andavano a finire nelle fosse comuni, veri carnai, profondi sino a sei metri che contenevano sino a 700 cadaveri.

    Essi esistevano in alcune zone interne dell’abitato: uno si trovava nell’odierna Via G. La Croce, che, per l’occasione, anticamente era chiamata “Via delle anime poverelle”, situato alle spalle della Chiesa della Catena con frontale in Via Denaro. Un altro si trovava nei pressi della Chiesa di San Giuseppe, oggi Piazza Diodoro Siculo, mentre un terzo si trovava alle spalle della Chiesa di Sant’Antonio Abate, dove oggi c’è un giardinetto interno; inoltre, quasi tutte le chiese conventuali erano provviste di carnaio.  Quando ero ragazzo, sulla tomba si accendevano le candele.

    La cera bruciata che colava “lu squagghiumi” era comprata a peso dai commercianti, che aspettavano fuori del cimitero; i ragazzi cercavano di raccoglierne il maggior quantitativo possibile, anche chiedendo il permesso ai vicini, per avere un maggior ricavo. Secondo Giovanni Asaro in “usanze e folclorismo” riportate in. “Il Faro”, 1966 <>.  

    Per rispetto dei defunti, durante quel giorno i genitori vietavano severamente ai ragazzi di cantare e fare schiamazzi; la radio trasmetteva solo musica sinfonica.  E’ con sommo dispiacere constatare che questa festa, dedicata ai defunti, ma anche all’innocenza dei bambini, scompaia, per far posto ad un’altra: Halloween di origine non cristiana, proveniente da una cultura non nostra, che permette di festeggiare streghe e folletti dei boschi nordici.

     Purtroppo oggi, come frutto indesiderato della recente globalizzazione, i popoli economicamente e militarmente più evoluti, anche se dotati di una cultura di poco valore, hanno esercitato molta influenza su altri popoli, spesso con un più ricco patrimonio di conoscenze.  Così in Sicilia si sono perduti o modificati dei valori umani inestimabili, come usi e costumi, il modo di vivere, di pensare, di occupare il tempo libero, di lavorare, di giocare, di comunicare in seno alla famiglia e nella società.

     Perduti certi valori, che erano il fondamento della nostra antica cultura, oggi accade anche in Sicilia che i figli uccidono i genitori per denaro, madri che buttano nel cassonetto della spazzatura le loro creature appena nate, ragazzi che si suicidano, mariti che uccidono le mogli; la famiglia si disgrega.

     La famiglia e la casa per il Siciliano era tutto il proprio mondo, attorno al quale giostrava la società.  “E’ la to casa chi ti strinci e ti vasa”, “Casuzza to cufulareddu to”, così sentenziavano i proverbi. La concezione di sacralità della famiglia e di rispetto verso i suoi componenti, da noi continuava più che mai anche dopo la morte. Questa ricchezza d’animo, questa “corrispondenza d’amorosi sensi”, per come sosteneva il Foscolo, era qualcosa che noi siciliani ci portavamo dietro da millenni e nessuna colonizzazione era riuscita a portarci via!!   

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