Speciale Carnevale: ricordando il "Gioco del Toro" di CVetrano tra "stracanciati" e proverbi
di: Vito Marino - del 2017-02-26
(ph. www.girasicilia.it/)
Il gioco del Toro: Per Castelvetrano storicamente si tratta di una ricorrenza che risale al 1600 con l’introduzione del gioco del toro e di tre giorni di festa, che in Sicilia si chiamavano “Li sdirri”. Il gioco del toro, che restò in voga fino al 1800 era una reminiscenza della dominazione spagnola; faceva parte dei programmi culturali eseguiti a Castelvetrano all’insegna del chiasso e del grande spasso popolare.
Un bue veniva legato per le corna con una lunga e robusta fune, trattenuta al capo da un gruppo di uomini. Aizzato dai giocatori con drappi rossi e con le urla sfrenate del pubblico, messo al sicuro dietro uno steccato, il toro, lasciato libero rincorreva minaccioso il giocatore. Costui quando sentiva di essere raggiunto e di non poter schivare il corpo dell’animale, si salvava scendendo lesto in un fosso scavato precedentemente nel mezzo della piazza. Il più bravo dei concorrenti non era solo colui che con movimenti agili e lesti scansava i colpi del toro senza scendere nel rifugio, ma chi invece riusciva a cavalcarlo.
Cessato l’uso della corrida, per festeggiare il Carnevale sono subentrati “li stracanciati”, cioè le maschere. Storicamente si hanno notizie dell’istituzione del carnevale, in una delibera comunale durante il regime fascista, con provvedimento dell’allora Cavaliere uff. Melchiorre Infranca, (podestà dal 1939 al 1943), con la seguente motivazione:
La spesa comunale consisteva nella costruzione di un palco a tre piani per la banda musicale e nell’acquisto di un pupazzo raffigurante il Carnevale. Antonino Buttitta asserisce che: <<dal Carnevale la natura viene ricondotta al suo stato di caos originario, dal quale può nascere soltanto un nuovo logos, una diversa misura delle cose>>.
Dai miei ricordi
Durante la II Guerra Mondiale, la manifestazione era stata sospesa per evidenti motivi; nel dopoguerra fu il sindaco Simanella, in carica dal 1947 al 1952, durante il suo mandato, a far ritornare questo divertimento popolare.
Nella storia di questa festa, gli anni compresi fra il 1950 e il 1960 forse furono i più ruggenti; Castelvetrano aveva acquisito un Carnevale d’avanguardia, veramente sentito da tutta la popolazione; addirittura veniva gente dai paesi vicini, anche da Palermo, per divertirsi. “Doppu li tri re olè olè”, diceva un altro proverbio; infatti, con “la festa di li tri re” (Epifania), una volta prettamente religiosa, oggi chiamata “della befana”, cioè del consumismo e dei regali, il sei gennaio chiudeva tutta la festività e l’atmosfera natalizia, ed iniziava a taglio netto il Carnevale. Ma, già la stessa sera alcune maschere giravano per le strade con le loro voci artefatte riscaldando e preparando l’atmosfera per la grande festa.
In quei giorni e fino al giovedì grasso, si ballava soltanto in casa di amici “a parti di casa” (presso i privati), “dunni si teni sonu” (dove si suona), allora si diceva. Negli anni ’50, gli echi della recente guerra e i suoi effetti devastanti sugli edifici e sull’economia della città erano ancora visibili, ma la gente, finalmente libera dalla dittatura e dalla guerra, aspettava con ansia il Carnevale, per scrollarsi di dosso gli orrori, la miseria e i pericoli vissuti; ma anche per dimenticarsi di essere dei miseri mortali e per godersi quegli attimi di spensieratezza e d’allegria, che la festa forniva in maniera collettiva, genuina e gratuita.
Pochi potevano comprarsi il domino, una veste lunga e mantella nera con bordi rossi, con cappuccio e maschera; la maggior parte portava delle maschere improvvisate, povere perché fatte con vecchi vestiti riciclati, ma spontanee, che suscitavano allegria e risata.
A Castelvetrano il carnevale ruggente degli anni 50 ha tralasciato “Peppe Nappa”, la maschera classica siciliana, per la creazione di maschere che metteva in evidenza i difetti della società, raffigurando i personaggi dei vari ceti sociali, in maniera burlesca.
Così, contro lo stesso barone Tagliavia era sorta la figura del “baruni”, mentre per i “cappeddi”, cioè coloro che nella scala sociale portavano il cappello per distinguersi dal popolino che portava la “coppula”, c’era la maschera dei “galantuomini”, che comprendeva anche quello del “dutturi, avvocatu e iurici”; quindi c’eranu “li mastri”, cioè gli artigiani con i loro attrezzi di lavoro. Inoltre c’era la maschera del “camperi” con aspetto mafioso, “lu massariotu, lu siniaru, lu viddanu, e lu picuraru (con i campanacci), che stavano negli ultimi scalini della scala sociale. Infine c’era anche “lu parrinu”. I criticati, assistevano alla manifestazione apparentemente divertiti.
Quando un mascherato incontrava un conoscente, lo spingeva, gli ballava attorno e gli chiedeva con la voce artefatta: “Cu sugnu?”. Generalmente era una donna che, protetta dall’anonimato si divertiva a stuzzicare un uomo. L’uomo, invece, per non farsi riconoscere si metteva le scarpe da donna e si aggiungeva un petto rigonfio di stracci all’interno di un reggiseno riciclato. (i ruoli invertiti dei Saturnali).
In una civiltà ancora maschilista, i petardi erano lanciati abitualmente in direzione delle donne, procurando spesso bruciature alle calze e alle gambe; la gioia di chi lanciava i botti era quello di sentire le donne gridare di spavento. Ma, spesso avvenivano fra squadre rivali delle vere battaglie con lanci di petardi.
Purtroppo qualcuno si procurava danni anche gravi, come la perdita di un occhio, per un petardo esploso sul viso. I ragazzi si consolavano con “l’assicuta fimmini” e “li sparapauli”; i secondi erano delle cartine rosse con tanti piccoli rigonfiamenti, contenenti polvere da sparo; esse si facevano esplodere picchiandovi sopra con un sasso o un martello.
“Li piticchi” (coriandoli) e le stelle filanti c’erano anche allora; molto in voga era “lu fetu” (la puzzolina), a volte buttata in classe dagli alunni, per far sospendere la lezione. Gli scherzi praticati venivano accettati senza offesa.
Un proverbio diceva “Carnevali ogni scherzu vali, cu s’affenni è un gran maiali”. A proposito di proverbi, uno diceva: “cu è fissa Carnevali o cu ci va appressu?”, un altro diceva: “Pi Sant’Antoniu (17 gennaio) mascari e soni; pi San Bastianu (20 gennaio) mascari ‘n chianu”.