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Ricordando "Don Pippinu l’orvu” e la "Ninnaredda di Natali" a Castelvetrano negli anni '60

di: Vito Marino - del 2016-12-23

Immagine articolo: Ricordando "Don Pippinu l’orvu” e la "Ninnaredda di Natali" a Castelvetrano negli anni '60

(ph. Il castelvetranese doc)

In Sicilia, nel lontano passato, era frequente trovare, accanto alle celebrazioni liturgiche, altre manifestazioni celebrative devozionali come  “triunfi, orazioni, novene, e ninnaredde”.

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  • Queste manifestazioni, che erano fortemente avvertite dal popolo, venivano diffuse dai “ninnariddara” e dai cantastorie ciechi.

    La Chiesa, al fine di diffondere presso il popolo le storie dei Santi  e della Bibbia, nel 1661 a Palermo, presso la “Casa Professa” aveva costituito la “Congregazione dei cantastorie orvi”, per iniziativa e sotto la guida dei padri gesuiti. Si trattava di cantori non vedenti ai quali veniva insegnato a suonare il violino.

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  • Il “triunfu”, era una festa di ringraziamento indetta in onore di un Santo da parte di chi aveva ricevuto una grazia.

    A Castelvetrano dai miei lontani ricordi e  fino agli anni ’50, in occasione del Santo Natale, la ricorrenza univa la religiosità alla tradizione popolare, fatta di presepe, “cosi duci” e canti natalizi. 

    Qui cercherò di riassumere tutti i miei ricordi e quelli raccolti fra le persone più anziane, da me interpellate, che riguardano la “ninnaredda”, un genere di canto popolare siciliano cantato in chiesa in occasione della “Novena di Natale”, le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

    Per festeggiare la ricorrenza natalizia, allora c'erano anche i “ninnariddara e i ciaramiddara”, cioè dei suonatori di violino e di “ciarameddi” (cornamuse); costoro “a li sett’arbi” (di mattino ancora al buio), giravano per le strade suonando i vari motivi della “ninnaredda”. Nelle strade silenziose di allora, le note echeggiavano e si diffondevano nell'aria creando un'atmosfera di festa.

    Nei miei lontani ricordi c'è il violino di "don Pippinu l’orvu” (Giuseppe Ricupa) un non vedente, che allora esercitava questo mestiere per sopravvivere.

    Di lui parla Giovanni Asaro, in un articolo “La settimana di passione nei canti popolari castelvetranesi” del 1966 su “Il Faro”, dove afferma che era un virtuosissimo del violino ed aveva una voce calda e pastosa, era un autodidatta ed è morto giovane.

    Chi era interessato lo invitava a suonare in casa davanti al presepe od all'altarino; poteva trattarsi di una suonata occasionale o per tutta la novena. Al suonatore si dava un compenso, a volte in natura, come: "Li cosi duci”.

    Oltre al presepe, allora esisteva in molte famiglie il culto dell’altarino in casa, possibilmente sistemato in una nicchia. I nobili tenevano l’altare in una stanza apposita.

    In chiesa, in occasione della “Novena di Natale”, che durava nove giorni: dal 16 al 24 dicembre, dopo la prima messa delle 4.30, che il popolo chiamava “la missa di lu addu”, si cantavano dei brani in lingua siciliana, intonati da un coro all'unisono, con l'accompagnamento di violino, “ncincirincì” (cerchietto), mandolino o chitarra.

    Come, però, è successo per moltissime  nostre tradizioni, dopo gli anni ’50, cadde in disuso.

    Allora, la prima messa era celebrata di consuetudine così presto, per permettere ai contadini di assistervi prima di andare al lavoro.

    Dobbiamo ricordarci che eravamo ancora in piena civiltà contadina, quando l’80% della popolazione viveva d’agricoltura e l’asinello ed il mulo erano i mezzi di locomozione molto lenti di allora; i contadini, pertanto, dovevano partirsi dal paese molto presto per raggiungere il posto di lavoro.

    La parola "Ninnaredda" deriva da "Ninna nanna", nenia che ogni mamma cantava giornalmente alla propria creatura, per farla addormentare; nella festività natalizia, la ninna nanna si riferiva al neonato Gesù che, come ogni bambino di questo mondo, non voleva prendere sonno.

    Alcuni brani riguardavano anche la Sua nascita, altri la Sacra Famiglia, ricordata dalla tradizione popolare siciliana come una normale famiglia terrena con i suoi problemi quotidiani di fame, freddo, lavoro e amore familiare.

    Generalmente la manifestazione era preceduta dal “viaggiu dulurusu”.   

    Ascoltando alcuni di questi brani si percepiscono dei ritmi, che sanno d’orientale. Anche in questo campo sicuramente l’influenza della dominazione araba, in Sicilia ha lasciato la sua impronta.

    La globalizzazione, apportata dalla civiltà del benessere e del consumismo e subentrata alla civiltà arcaica contadina, ha sostituito questi canti con altri (Adeste Fideles, Jingle Bells, Noel Noel, ecc.) provenienti da paesi stranieri con culture diverse dalla nostra.

    Il culto dell'albero di Natale, proveniente dal nord Europa, è arrivato nelle nostre case intorno agli anni sessanta e possiamo definirlo simbolo del consumismo della civiltà moderna; esso ha soppiantato gli altarini, il presepe e le nostre care "ninnared­de".

    Nei primi anni del dopoguerra ricordo che a Castelvetrano, nella Via Bertani ai quattro canti con Via Denaro, all'aperto, si cantava la "ninnaredda" davanti alla "crisiola di lu Signuruzzu di la caruta" (cioè alla chiesuola o altarino incastrato al muro ove c'era un quadro che rappresentava il Signore mentre cade sotto il peso della croce); come accompagnamento per il coro all’unisono (mi hanno riferito, io ero troppo piccolo per ricordare questi particolari) c'erano il sassofono, il violino, la chitarra e il clarinetto. Oggi assistiamo ad un timido risveglio di questa tradizione.

    A Castelvetrano negli anni ‘90 il coro polifonico del prof. Bentivoglio, di cui il sottoscritto faceva parte, ha riesumato questi canti e li ha cantati, armonizzati a quattro voci, presso chiese e locali pubblici. Sciolto il coro, questa tradizione continuò presso la parrocchia di San Giovanni Battista, per alcuni anni.

    Circa tre anni fa ho cercato di riesumare questa tradizione al Circolo della Gioventù, con il coro di San Giovanni diretto da Paolo Catania e patrocinato dal Comune, purtroppo negli anni successivi non ha avuto seguito.

    Per i più giovani questi canti rappresentano una novità, una tradizione a loro sconosciuta; si tratta in realtà di un patrimonio culturale, che i nostri nonni ci hanno lasciato, ricco di sentimenti di pace, d’umiltà e d’amore familiare.

    Valori ormai scomparsi nella moderna civiltà ove si assiste quotidianamente a violenze, odio, vendette e disgregamento della famiglia.

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