Vedove e "cattivelli". Quando a CVetrano esisteva la fabbrica dei drappi di seta nera
di: Vito Marino - del 2017-08-22
“Ceusi frischi…ceusiiiiiiii!!”. Sono passati molti decenni, ma ancora mi rimbomba nell’orecchio questa “abbanniata”, che rompeva il silenzio e quell’atmosfera di pace e di fresco mattutino della nostra calda estate. Sto parlando del Gelso, che ai tempi della mia fanciullezza tutti i proprietari terrieri ne tenevano almeno due piante, per il frutto e per il fresco, che le larghe fronde procurano. L’albero fu introdotto in Sicilia dall’Oriente per la produzione delle foglie, che servivano per nutrire il baco da seta, ma anche per il suo legno adatto ai lavori d’intarsio e tornitura e per il frutto.
A Castelvetrano vengono ancora coltivati per il frutto le seguenti varietà: il Gelso con frutto bianco, carnoso e dolciastro e il “palìno” (dal colore che dà sul rosella), molto dolce; una volta erano poco ricercati, perché considerati “cauri” (irritanti). Il proverbio “Ceusi e ficu stacci nimicu” evidentemente si riferiva a questi due tipi.
Inoltre, c’è il Gelso, che produce frutti nero-violacei dal sapore un poco acidulo, ma piacevole, allora era ricercato, perché considerato “friscu” (rinfrescante) e si vendeva per le strade del paese. Quando un passante, sprovvisto di contenitore chiedeva i gelsi, “lu ciusaru” gliene vendeva una “pitanza” (una quantità stabilita) messa su una foglia di fico, in mancanza di carta.
Questi meravigliosi alberi di gelso sono i discendenti di antiche vaste coltivazioni che esistevano in Sicilia, e nelle campagne di Castelvetrano in particolare, per l’allevamento del baco da seta, ad iniziare dagli anni mille, con la colonizzazione araba, fino al XIX secolo. In Sicilia, la coltivazione del gelso nero avveniva già sin dalla colonizzazione romana, quindi molto tempo prima della coltivazione della “cannamele” (canna da zucchero) e degli agrumi.
Nel 1400 si passerà a quello bianco, meno longevo, ma più indicato per le foglie, indispensabili per la coltivazione del baco da seta. Il baco da seta (Bombix mori), è originario di una località posta alle falde del massiccio dell'Himalaya ed era allevato dal popolo dei Seri, dal quale deriva il nome della fibra. Malgrado la rigida protezione apportata per avere il monopolio, il baco da seta, dalla Cina arrivò a Costantinopoli, allora sotto l’imperatore Giustiniano, nel 552 d. C.
In Sicilia fu portato dagli Arabi, che, durante la loro lunga dominazione, diffusero l’allevamento dei bachi dapprima in Spagna, poi, nel 1140 in Sicilia dove ebbe inizio la grande arte serica siciliana. La maggiore produzione ed esportazione di seta avverrà durante il periodo normanno, e di Federico II, quando, sfruttando l’esperienza bizantina nascerà il mercato dei tessuti e delle stoffe di seta.
A Palermo presso il Palazzo Reale, abili maestri tessitori tessevano drappi di seta e oro. I Sovrani più potenti d’Europa, ordinavano dai bravi tessitori siciliani le belle sete intrecciate con fili d’oro e d’argento, damaschi che servivano per rivestire divani e pareti dei palazzi nobiliari, le tappezzerie, i tendaggi, le bordure, i fiocchi e i nastri di cui si erano adornati per secoli dame e cavalieri. I magnifici drappi di seta di Ruggero II e Federico II rispettivamente esposti a Vienna e a Metz, sono oggi la prova più chiara della loro abilità raggiunta.
Dal XV secolo in poi per circa quattrocento anni, l’economia di quasi tutta l’Isola a poco a poco, trasse alimento dalla sericultura, oltre che dal frumento. Grano e seta, infatti, erano le voci più attive delle esportazioni siciliane.
Alla coltivazione del gelso e all’allevamento del baco provvedevano i contadini. Generalmente gli uomini coltivavano i gelsi e ne raccoglievano le preziose foglie, mentre le donne disponevano sui tralicci le foglie dei gelsi e su quelle le uova, simili a dei piccoli semi, che dovevano stare al caldo per potersi schiudere. Il clima della Sicilia, mite per la maggior parte dell’ anno favoriva la schiusa delle uova.
Ma nella stagione fredda o nei luoghi di maggior altitudine, per accelerarne la maturazione, le contadine avvolgevano le uova con delle pezzuole e le tenevano in seno per farle schiudere al calore del loro corpo, tollerandone l’odore insopportabile. Dopo essersi nutrito di foglie di gelso ed aver raggiunto la maturità, il filugello emette una bava che diventa filo di seta, col quale avvolge il proprio corpo formando un bozzolo, quindi si trasforma in farfalla, buca il bozzolo ed esce per deporre le uova.
La maggior parte dei bozzoli si mette nell’acqua bollente per uccidere la crisalide e recuperare il filo di seta, che passa alla lavorazione.
In Sicilia la produzione e il commercio della seta ebbero, tra il XV e il XIX secolo, un grande sviluppo; quindi fra alterne vicende, la produzione iniziò a diminuire fino a scomparire a causa delle pesanti tasse imposte dai Savoia e poi, dall’incremento della produzione di altri paesi europei ed extraeuropei e dall’industrializzazione, che in Sicilia non ebbe alcuna iniziativa privata e per ottuse politiche economiche da parte dei Savoia, che hanno accentrato al Nord tutte le industrie italiane, facendo chiudere quelle del Sud.
Alla fine del XIX secolo, nei mercati siciliani esistevano ancora prodotti artigianali e manufatti di pregio, ma troppo costosi, che non potevano competere sul piano commerciale con la produzione industriale in serie. Intanto erano mutate le condizioni politiche, la nobiltà era in decadenza e la seta veniva richiesta dalla borghesia arricchitasi, ma dai gusti meno esigenti, preferendo la seta proveniente dagli Stati Uniti d’America, Cina, Giappone che offrivano un prodotto industriale più scadente, ma anche molto meno costoso.
Così, poco per volta, la coltura familiare del baco fu abbandonata. La recessione economica internazionale del 1929, che coinvolse anche il settore della seta, contribuì al suo declino. Pirandello ne "Il fu Mattia Pascal" e Verga ne "I Malavoglia" ci ricordano nei paesaggi siciliani la presenza saltuaria di gelsi, non più di estese coltivazioni. Il territorio di Castelvetrano fu assegnato nel 1299 da Federico D’Aragona ai Tagliavia, che, per i matrimoni contratti nel tempo, gli eredi acquisteranno i cognomi di Aragona e Pignatelli.
Reggeranno la città fino al 1812 quando il feudalesimo cessò di esistere. Per loro merito, durante il 1500 e la metà del 1600, Castelvetrano era una delle città più ricche della Sicilia.
In quegli anni avviene un grande sviluppo urbano, con costruzioni di chiese, conventi, palazzi, strade, piazze. In quegli anni opera la famosa famiglia di stuccatori e pittori Ferraro di Giuliana e le chiese vengono arricchite con stucchi, decorazioni e pitture barocche.
La richiesta di mano d’opera richiamerà lavoratori da altri paesi, portando la popolazione a 13.000 abitanti agli inizi del 1600, ma già nel 1653 era di 15367 abitanti. Questo benessere si notava anche nella presenza di 200 preti, 250 monaci e monache, più altro personale ausiliario, che complessivamente rappresentavano quasi il 5% della popolazione.
Dalle ricerche risulta che anche a Castelvetrano, dopo la produzione del frumento quella serica era la più rilevante; è diminuita ma non si è arrestata nemmeno durante la peste del -1624 – 1626 e durante la guerra ispano alemanna del 1719-20, che portò una grave crisi con la diminuzione della popolazione da 15.367 del 1653 a 10.188 del 1722.
Il mercato locale assorbiva buona parte della produzione: c’erano i nobili, il principe e la sua corte, la Chiesa e la ricca borghesia, che potevano spendere e usare tessuti di seta, per vestiti, per rivestimento di pareti nelle abitazioni e per tappezzerie.
Con “il Barocco” le festività religiose diventano pompose, ricche di colori, di luce e di addobbi delle chiese. In occasione di ogni ricorrenza, la chiesa interessata veniva “parata” (addobbata) con drappi di seta e di velluto con ornamenti argentati, che dal tetto scendevano fino a terra, l’altare era generosamente adorno di fiori e l’illuminazione era fastosa.
Era il periodo nel quale entra in uso la teatralità barocca nelle manifestazioni religiose come l’Aurora e la processione dei misteri del Venerdì Santo.
La seta, in quanto tessuto lussuoso, viene abbondantemente usata negli arredamenti sacri e nei costumi dei partecipanti.
La conferma della produzione serica a Castelvetrano la troviamo nei vari libri che ho consultato, scritti da storici e ricercatori locali.
Il Canonico Vivona ci riferisce che, agli inizi del 1800, "a Castelvetrano esiste la fabbrica dei drappi di seta nera, chiamati "cattivelli", perché indossate dalle vedove, drappi che si faticano da artiste, ma non sufficienti per provvedere la popolazione: vi sono inoltre moltissime fabbriche di tele diverse; di coltri, damaschi di tela e cotone, e di panno grossolano chiamato albagio del quale si vestono i contadini, e quelle fabbriche si operano dalle donne, essendo quasi tutte attive nel mestiere del telaro o in fare ogni sorta di calzette all’ago".
Vorrei fare una precisazione: le “cattive” venivano chiamate le vedove. Si chiamavano così, perché morto il marito, dovevano restare segregate in casa senza potere più uscire; quindi vivevano in cattività, come gli animali in gabbia.
Fra le cause della scomparsa dell’industria serica siciliana c’è da inserire anche l’entrata in funzione della ferrovia, come mezzo di trasporto più celere, avvenuta tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, che permetteva alle industrie del Nord di vendere manufatti al Sud, a prezzi più bassi.